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Il settimo sigillo

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Il settimo sigillo

di (spopola) 1726792
9 stelle

Il film testimonia una fase di incertezza e di transizione (l’inizio o forse e ancora meglio la presa di coscienza del disagio esistenziale?) ed è una potente rappresentazione ricca di notazioni psicologiche e descrittive, di una folla di ritratti, schizzi e profili dove situazioni e aneddoti narrati, assumono il valore di una verità assoluta.

Queste note sono dedicate a due cari amici del sito: 1) ad Aquilant e al suo eccezionale contributo critico “in progress” che abbraccia l’intero percorso artistico del grande Bergman e ci consente per questo di confrontarci esaustivamente con l’opera omnia di uno dei più geniali registi del novecento; 2) al dolce, incomparabile ed unico Fedeico Winslet (con il quale ho passato una indimenticabile giornata fra negozi di dvd e discussioni di cinema) che mi ha fornito indirettamente lo stimolo per una “rivisitazione visiva” di questo film, facendomi rinascere la voglia (da troppo tempo “sopita”) di riconfrontarmi con le sue tematiche fiammeggianti. “Il settimo sigillo” rappresenta in fatti il primo capitolo “perfettamente compiuto” di un percorso sofferto e accidentato fra “conoscenza” e “dubbio”, l’enunciazione di quel “grido disperato e inascoltato” che avrebbe attraversato praticamente tutta la poetica Bergmaniana. Le tracce erano spesso visibili anche in moltissime altre opere che precedono questo titolo, ma è qui che per la prima volta si estrinsecano in maniera evidente e inoppugnabile (il film è infatti di un anno antecedente a “Il posto delle fragole”, altra tappa fondamentale di quel viaggio ineludibile e necessario, alla ricerca della “verità dell’anima” che forse approderà solo al “silenzio assordante del nulla” e che riuscirà a produrre una serie di “capolavori” assoluti coordinati e conseguenti, capaci di far emergere le nostre angosce mettendoci spesso di fronte alle nostre contraddizioni esistenziali e ponendo interrogativi importanti e assoluti sul disagio di vivere e di “non sapere”). Se i semi erano già stati gettati da tempo quindi, potremo concludere che è solo con ”Il Settimo Sigillo” che spunta davvero il primo, suggestivo e consistente germoglio creativo in questa direzione, che inizia a svilupparsi “criticamente” una delle tematiche dominanti che segnerà indelebilmente l’opera del regista, evolvendosi (e diversificandosi) progressivamente, attraverso gli “scavi” appassionati sempre più profondi, sofferti e sconfortati, che troveranno una precisione “stilistica” e “artisticamente compiuta” sempre più marcata, appassionata e sconvolgente, per le sue implicazioni filosofiche e morali, non solo nella cosiddetta “trilogia del silenzio” (“Come in uno specchio”, “Luci d’inverno” e “Il silenzio” appunto, tre opere in divenire e fra loro indissolubilmente complementari, che forse proprio nel titolo centrale raggiungono l’apice della “durezza impietosa”, disincantata e rabbiosa della messa a nudo e in contrapposizione dialettica, di quattro anime in conflitto e alla deriva incapaci di raffrontarsi e di comprendersi senza quelle sicurezze rassicuranti necessarie per dare un senso alla nostra esistenza) ma anche nei successivi scandagli sempre più concentrati ad analizzare, dissezionandoli senza pudore o false ipocrisie, quei sottili, sotterranei “rapporti con l’anima e il mistero” che non riusciranno mai ad avere davvero risposte accettabilmente convincenti che possano per lo meno alimentare una speranza concreta anche in mancanza di certezze assolute (penso ad opere “potenti e impenetrabili” come “Sussurri e grida”, o alle laceranti introspezioni di “Persona”, o addirittura al simbolismo onirico capace di dare corpo e sostanza, rendendoli persino tangibili, a molti dei “demoni” che si nascondono nel nostro subconscio, del sottovalutatissimo e “personale” “L’Ora del Lupo”, solo per citare alcuni dei titoli più significativi e importanti). E’ il segreto stesso dell’esistenza a imporre quelle domande inquietanti, e a lasciarci sbigottiti e attoniti di fronte a “quell’invisibile presenza” che non riusciamo più a percepire, e a renderci incapaci di “comprendere e di agire”. Le contraddizioni lacerate di quel “mal de vivre” così singolarmente espresso, sono così evidenti nell’opera Bergmaniana, da essere rese “palpabili” e spesso destabilizzanti: seppure con varie modalità e caratteristiche, ne è sempre protagonista e vittima l’uomo moderno (inteso ovviamente come appartenenza di genere, non certo come entità fisica), reso instabile e squilibrato (se non addirittura sconvolto e attonito) dalla profonda crisi intellettuale e morale provocata dal crollo delle credenze religiose e dei principi indiscutibili ad esse connesse. La perdita di quelle certezze consolatorie infatti, non gli consentono più, in questo spaesamento generalizzato, di dare ancora un senso compiuto agli atti della propria esistenza (vita), compressi e vanificati come sono dalle incertezze dell’arido scetticismo di un “materialismo” che è soprattutto scientifico (e che per questo privilegia il concreto sull’inconscio e l’imponderabile), e che è conseguentemente oggettivamente incapace di fornire risposte appropriate ai suoi interrogativi che rimangono prioritari e assoluti, nell’inaccettabile rifiuto di ammettere che sarebbe invece necessario arrendersi all’evidenza di dover convenire che i valori umani possono essere riconosciuti soltanto nell’esistenza stessa e in nessun altro luogo o dimensione. Qui più che in altre opere (più tardi infatti il “dubbio”, le domande si faranno più esplicite e dirette e allo stresso tempo più sottilmente inquiete, e interesseranno anche con maggiore evidenza la sfera privata della coscienza individuale) il regista muove una serrata critica all’autonomismo egocentrico e personalistico della società borghese contemporanea, individuandone le cause primarie nella decadenza dei valori fondanti delle fedi religiose accettate come “dogmi assoluti” (con la conseguente impossibilità di poter continuare ad affidarsi acriticamente ad esse) e della conseguente ascesa delle tecnocrazie. Ma la “rivolta” del regista (se così la possiamo chiamare e intendere) qui è ancora in gran parte ancorata a una concezione di stampo romantico-libertario (saranno le evoluzioni successive a spostare decisamente l’asse universalizzando maggiormente l’approccio) con la evidente idealizzazione di stereotipi precostituiti che individuano nella fresca giocosità della gente semplice, vagheggiata come una statica purezza salvifica. Mancano (o sono solo sotterraneamente espresse le implicazioni più che di carattere “sociale”, di portata etico-politica che invece sono fortemente presenti per esempio nel successivo, sconfortato e definitivo “Il silenzio”) . Nel “Settimio sigillo” esiste ancora invece “il barlume della speranza”, e viene confermata la “stagione della giovinezza” (quella particolare “età felice” che permette di concretizzarsi e di prendere corpo ai sogni nei quali spesso si rifugia l’animo affaticato dell’intellettuale moderno per tentare di liberarsi dalle presenti, pesanti contraddizioni ed angosce) come il periodo nel quale l’uomo più liberamente e spensieratamente può espandere le proprie energie, in una illusoria, idilliaca armonia con l’intero universo, naturale e umano. A conferma del profondo rapporto che lega il regista alle tematiche sopra evidenziate, dobbiamo ricordare che “Il Settimo sigillo” trova ispirazione e radici in un precedente dramma dello stesso Bergman, “Pittura sul legno”, un atto unico particolarmente denso e pregnante, espressionisticamente carico di riferimenti simbolici, che contiene già al suo interno tutte le problematiche poi più ampiamente sviluppate nel film, del quale rappresenta però solo un “canovaccio”, l’abbozzo a carboncino sul quale il regista ha potuto con libertà assoluta costruire, riplasmandola, la visione più universale e compiuta di quella sofferenza scaturita dall’incertezza e dal dubbio che mette in discussione persino le finalità effettive dell’esistenza stessa. Le differenze sono infatti molto più marcate e importanti di quanto non potrebbe apparire da un sommario confronto, e questo non tanto nella struttura di base del racconto, quanto nelle implicazioni filosofiche della progressione verso il conclusivo ricongiungimento con la “morte che non ha certezze”. Lo spostamento dell’asse portante rispetto al dramma, si avverte già nel maggior peso attribuito non solo alla fisicizzazione di quel personaggio sempre e comunque presente, quasi “ingombrante” con la sua “immagine concreta e reale” straordinariamente diversa dall’iconografia corrente, che rappresenta il fulcro dell’azione e dello “scontro” (eccezionale l’apporto suggestivamente inquietante e splendidamente intuitivo della partita a scacchi che simula perfettamente la metafora), ma anche alla figura del Cavaliere Antonius Block, nel film a pieno titolo il vero antagonista del conflitto, mentre lo scudiero, protagonista indiscusso e perdente della piece teatrale, ne diventa l’alter ego più disincantato, dissacrante e scettico, che in qualche modo tenta per lo meno una piccola quanto inutile “ribellione”, quasi una demistificazione “popolarescamente incredula” costretta suo malgrado a seguirne i destini e la sorte. “COME POSSIAMO AVER FEDE IN COLORO CHE CREDONO, SE NON POSSIAMO AVER FEDE IN NOI STESSI? CHE COSA ACCADRA’ A QUELLI DI NOI CHE VOGLIONO CREDERE MA NON VI RIESCONO? E CHE COSA NE SARA’ DI COLORO CHE NON VOGLIONO NE’ POSSONO CREDERE? PERCHE’ NON POSSO UCCIDERE DIO DENTRO DI ME? PERCHE’ EGLI CONTINUA A VIVERE IN QUESTO MODO DOLOROSO E UMILIANTE ANCHE SE IO LO MALEDICO E VOGLIO STRAPPARMELO DAL CUORE? PERCHE’ NONOSTANTE TUTTO, EGLI E’ UN’ILLUSORIA REALTA’ CH’IO NON POSSO SCUOTERE DA ME? MI ASCOLTI? (…..) IO VOGLIO LA CONOSCENZA, NON LA FEDE, NON SUPPOSIZIONI, LA CONOSCENZA. VOGLIO CHE DIO TENDA LA SUA MANO VERSO DI ME, SI RIVELI E MI PARLI.. (…..) LO CHIAMO NEL BUIO, MA SEMBRA COME SE NON CI FOSSE NESSUNO. (……) NESSUNO PUO’ VIVERE IN VISTA DELLA MORTE, SAPENDO CHE TUTTO E’ NULLA.” Questo è uno dei passi fondamentali della sceneggiatura che non trova alcun riferimento nella piece teatrale, rappresenta il “nocciolo della questione” ed è la conferma palese delle due diverse angolazioni di lettura. E’ Antonius Block infatti che si interroga, pronunciando queste significative parole - e ripropone universalizzandoli analoghi dilemmi - sulla necessità primaria della conoscenza, perché la fede da sola non basta più, non è sufficiente a mantenere vivo il senso della finalità ultima di ogni “passaggio terreno”, durante il primo incontro con la morte e l’inizio della partita a scacchi ed esprime in maniera inconfutabile e chiara uno degli interrogativi primari che si riproporranno diversamente espressi ma ugualmente angoscianti e senza approdare a esaurienti risposte consolatorie, in quasi tutto il successivo percorso artistico (ma presumo anche “privato”) del regista. Jöns lo scudiero, mantiene invece la percettiva “certezza del nulla”, assolutamente invariata rispetto alla versione teatrale: “NELLE TENEBRE DOVE TU AFFERMI DI ESSERE, DOVE PROBABILMENTE TUTTI NOI SIAMO… NELLE TENEBRE NON TROVERAI NESSUNO CHE ASCOLTI LE TUE GRIDA, O SIA COMMOSSO DALLE TUE SOFFERENZE. ASCIUGA LE TUE LACRIME E SPECCHIATI NELLA TUA STESSA INDIFFERENZA.” Ben altra importanza e significato acquisisce poi il personaggio della strega bruciata viva incontrata nel bosco, che assume nel film l’identità di una inquietante riproposizione della tematica minacciosa dell’assenza più volte espressa, l’impossibilità matematica di avere “certezze” anche nel momento estremo: “GUARDATE I SUOI OCCHI, SIGNOR MIO. IL SUO POVERO CERVELLO L’HA SCOPERTO PROPRIO ADESSO. IL VUOTO SOTTO LA LUNA. (…) CE NE STIAMO QUI IMPOTENTI, CON LE BRACCIA PENZOLONI, PERCHE’ VEDIAMO CIO’ CHE VEDE LEI. E IL NOSTRO TERRORE E IL SUO SONO LO STESSO”. In teatro invece era più semplicemente rappresentato l’incontro con le sembianze fantasmatiche di una vergine quasi istericamente consapevole, che aveva già attraversato la linea di confine e che “ricordava” con toni quasi da eccitazione sessuale, il presunto rapporto con il male e l’estasi voluttuosa del martirio, un’occasione succulenta per uno splendido “assolo” interpretativo e poco più. Anche il personaggio di Mia “l’innocente con il bambino” risultava sulla scena solo lievemente tratteggiato nel suo positivismo, poiché veniva a mancare del tutto la contrapposizione dialettica e gioiosa col marito (invenzione esclusivamente cinematografica) e la conseguente, chiara esemplificazione di quella “semplicità” salvifica che preserverà poi il trio dalla sorte del resto della compagnia. Insomma è come se quell’abbozzo già di per sé affascinante e corposo, fosse riuscito a trovare nuova linfa nella trasposizione filmica, fino ad acquisire una valenza più universalizzata e problematica (oserei dire addirittura maggiormente “inquieta”). “Il Settimo sigillo”è ambientato in un medio evo oscuro e tragico, attraversato e devastato da pestilenze che seminano morte e paura, intriso di una necessità di espiazione di stampo quasi masochistico, corroso da una voglia di punizione per riscattarsi dal male così radicata e profonda, da rasentare la maniacalità ossessiva, con quella sequenza impressionante di processioni salmodianti fra incensi e giaculatorie di fustigatori folli e contriti, quasi lo specchio riflesso del caos contemporaneo, all’interno del quale si mescolano integrandosi, “sacro e profano”, “tragedia e farsa”, in una allegoria simbolica sull’uomo alla ricerca di Dio, ma con la morte come unica certezza. La violenza della polemica anticlericale e il suo totale disprezzo per il brutale fanatismo cui le vuote forme della religione conducono, è uno dei motivi che anima buona parte dell’opera e suggerisce alcune delle scene più belle e coinvolgenti, come la processione dei flagellanti e la prima presentazione della giovane strega. Ed è in questo panorama devastato che il Cavaliere e il suo scudiero di ritorno da una Crociata che anziché far ritrovare la fede, ha insinuato il dubbio, sta faticosamente attraversando la Svezia per riapprodare alla propria magione. L’apocalisse sembra imminente e la gente è atterrita e impaurita perché non esistono più valori di riferimento né certezze, e il fanatismo religioso dei monaci non può che invitare alla espiazione e alla penitenza, aumentando così l’atterrita prostrazione del volgo, mentre i mercanti continuano a “godersela” in attesa dell’inevitabile contagio, gli eretici e le streghe vengono bruciati sul rogo e i preti apostati derubano persino i cadaveri degli appestati. Anche per Antonius Block è arrivato il momento della resa finale, ma riesce a strappare una deroga che ritiene necessaria per tentare di comprendere quale sarà davvero la meta finale del viaggio che ha intrapreso (quello della sua esistenza) e che è ormai giunto al suo termine. Ma nessuno potrà diradare il silenzio e le tenebre che lo avvolgono e lo rendono inquieto e dubbioso: nemmeno la Morte è infatti in grado di dare risposte concrete perché nemmeno lei “sa”, perchè nemmeno lei è portatrice di conoscenza: “NON SERVE SAPERE” conferma implacabile: “BISOGNA SOLTANTO ACCETTARE.” Ma questo ad Antonius non basta, non è sufficiente e continuerà caparbiamente la ricerca di una risposta che in qualche modo crederà di individuare nel modello di vita di una famigliola di attori girovaghi, nei quali letizia e fiducia nell’avvenire sopravvivono ad ogni umiliazione e tristezza. E sarà proprio al fine di consentire alla coppia e al loro piccolo figlioletto di sfuggire alla morte, finalmente pago di aver ritrovato per lo meno una traccia di un solido rapporto di solidarietà con i propri simili, che riuscirà a “distrarre” il competitore ferale, permettendo loro la fuga, anche se questo significherà la perdita della partita e la ineluttabile conclusione della sua esistenza e di quella degli altri suoi compagni di viaggio. E sarà proprio l’Apocalisse di Giovanni che scandirà il procedere dei flagelli che si abbattono sulla terra dopo l’apertura del settimo sigillo iun un crescendo di alta potenza drammatica: “E QUANDO L’AGNELLO EBBE APERTO IL SETTIMO SIGILLO, SI FECE SILENZIO NEL CIELO PER LO SPAZIO DI CIRCA MEZZ’ORA. E IO VIDI SETTE ANGELI CHE STAVANO IN PIEDI DINANZI A DIO; E AD ESSI FURONO DATE SETTE TROMBE. E UN ALTRA… IL PRIMO ANGELO SUONO’, E PIOVVE GRANDINE E FUOCO MISTI A SANGUE, CHE FURONO SCAGLIATI SULLA TERRA; E LA TERZA PARTE DEGLI ALBERI FU BRUCIATA E TUTTA L’ERBA VERDE FU BRUCIATA. E IL SECONDO ANGELO SUONO’, E FU COME SE UNA GRANDE MONTAGNA DI FUOCO FOSSE PRECIPITATA NEL MARE; E LA TERZA PARTE DEL MARE DIVENNE SANGUE… E IL TERZO ANGELO SUONO’, E DAL CIELO CADDE UNA GRANDE STELLA, ARDENTE COME UNA TORCIA, E CADDE SULLA TERZA PARTE DEI FIUMI E SULLE SORGENTI DELLE ACQUE. IL NOME DELLA STELLA E’ ASSENZIO…” L’ambientazione medievale, amplificata da una scrittura fortemente evocativa, rappresenta certamente, come già sopra accennato, una metafora dell’eterna condizione umana, ed è esaltata dal sorprendente fascino figurativo, denso di richiami pittorici (da Dürer al Trionfo della morte dell’Orcagna, dalle incisioni in legno di Hans Behar, ai dipinti presenti nelle chiese, quella “Pittura sul legno” alla quale si richiamava appunto il titolo dell’opera teatrale) nel cupo contesto di una “costruzione” quasi espressionista resa magnificamente dallo splendido bianco e nero di un eccezionale Gunnar Fischer. Il contrastato rigore della sua fotografia presenta una gamma infinita di grigi e di contrappunti violenti che riescono a valorizzare pienamente l’ossessività di questo fosco periodo di transizione, l’incombere opprimente dell’ineluttabile, l’incalzare degli orrori e degli esorcismi (di particolarissimo pregio figurativo la processione dei flagellanti colta in controluce fra la polvere, le immagini in riva al mare o le funeree atmosfere del castello, fino alla indimenticabile stilizzazione in campo lunghissimo della danza dei “defunti” guidati dalla morte con la falce - che finalmente riassume le sembianze dell’iconografia storicizzata - e che Mia e Jof “vedono” da lontano, quasi si trattasse di un sogno o di una apparizione). In ultima analisi si può quindi affermare che “Il settimo sigillo” testimonia una fase di incertezza e di transizione (l’inizio o forse e ancora meglio la presa di coscienza del disagio esistenziale?) ed è una potente rappresentazione straordinariamente ricca di notazioni psicologiche e descrittive, di una folla di ritratti, schizzi e profili dove situazioni e aneddoti narrati, assumono una inconsueta evidenza e valore di verità assoluta, con momenti di gustosa introspezione psicologica ironica e illuminate (basti pensare al colloquio tra il fabbro e lo scudiero a proposito della malizia delle donne) che si alternano in perfetto equilibrio alla tragedia e al dramma.

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