Regia di François Truffaut vedi scheda film
L’automobile guidata da Catherine che cadeva nell’acqua misteriosa ed asfissiante portandosi con sé Jim in nome del “né con te né senza di te” in Jules e Jim riemerge smaniosa scorazzando sotto la pioggia battente ne La calda amante. A guidare la macchina, stavolta, è Pierre, perno centrale della storia e punto di unione tra i personaggi del film. Un altro triangolo d’amore e di passione ma, mentre in Jules e Jim la condivisione dell’amore tra Catherine, Jules e Jim era quasi inevitabile e come se una storia fosse in funzione dell’altra, ne La calda amante un lato nega l’altro: Pierre può amare o solo Françoise o solo Nicole, non può vivere la condizione dell’adulterio come un sotterfugio erotico e la dimensione coniugale con smarrita ipocrisia.
Forse proprio per voler sottolineare l’aspetto perversamente dolente del film, François Truffaut dirige con piglio nervosamente lento, quasi a non voler mai giungere ad una risoluzione del racconto, spostandosi con inquieta calma tra le varie sequenze. Per certi versi, è il film più raggelante di Truffaut: manca di quella forza necessaria che imprima alla macchina narrativa lo slancio giusto, ma è una scelta voluta. Questo voler rendere il rapporto umano una gelida alchimia che neanche l’amore riesce a far sciogliere è ben giustificato dal fatto che il tema fondamentale del film sia la distanza tra i corpi e le interiorità, i luoghi e i partecipanti all’azione, il tempo e l’attimo.
Si sa, per Truffaut la fine di un amore è sempre un dramma. Ma qui il dramma è gestito con la tragica cifra esistenziale dell’incomunicabilità. È totalmente speculare a Jules e Jim: sembra che Truffaut abbia voluto espiare con violenza quell’esperienza, dove anche la morte rappresentava una via di fuga ineludibile e quasi davvero “adeguata” ai sentimenti amorosi, mettendo in scena il lato oscuro dell’amore. No, ragazzi: l’amore non è un gioco – o, almeno, una “cosa così”, uno scambio di affetti con cui si mischia l’amicizia, senza distinzione. No, l’amore fa (anche) male. Probabilmente è a causa di questa esigenza personale di mostrare l’altro risvolto psicologico del sentimento se il film non colpisce fino in fondo.
Forzato qua e là da una sceneggiatura profondamente psicologica, attraversato da una innegabile tensione che si rivolge ad un epilogo di funesta enigmaticità, ha una seconda parte che vale più della prima per crescita di frenetica, irrequieta, emotiva apprensione (spicca decisamente il volo quando la moglie scopre il tradimento). Duro e sofferto, traspira non di rado di convulso sudore e lancinante angoscia. E il finale, tremendo, beffardo, ricattatorio (Françoise compie quel che compie condannando il marito – e Truffaut, a sua volta, è come se la sfruttasse come portavoce: Pierre, d’altronde, ha distrutto una famiglia), quello sì, fa centro. Ma non lascia l’amaro in bocca. È preoccupante.
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