Regia di François Truffaut vedi scheda film
Possibile arrivare al capolavoro al terzo tentativo registico? Possibile realizzare il capolavoro indiscutibile di una carriera appena iniziata? Possibile raggiungere livelli di così elegiaca poeticità ad un’età così giovane, al principio di un percorso cinematografico “attivo” successivo ad una militanza critica appassionata? Risposta: possibile, e anche di più. Perché Jules e Jim è la sorpresa della passione che ondeggia elegiaca e subdola nell’aria, catturando le emozioni che svolazzano libere alla ricerca del porto sicuro.
Non è poi un porto così tanto sicuro, quello architettato dall’innamorato François, che si è servito di un libro sconosciuto per orchestrare una parabola decadente sull’amore in senso lato. L’amore è totalizzante, l’amore è soddisfazione, l’amore è sacrificio, l’amore è privazione, l’amore è dolore. Poiché non si vive di solo amore, al centro dell’azione c’è un’amicizia, che in realtà è comunque amore. Per quanto atipica essa possa essere, l’alchimia che si instaura tra Jules e Jim è un sentimento di abbandono spirituale in cui l’uno non può esistere se privato dell’altro, l’uno è funzionale all’altro per la concretizzazione eterea dello stato d’animo.
Si danno del “lei”, si daranno del “lei” per tutta la vita, è vero: ma non è da interpretare come un distacco, piuttosto come un senso di rispetto che si congegna fra i due, una sorta di rapporto fiduciario d’altri tempi, forse incomprensibile, ma comunque intrigante. È un’amicizia sostenuta dalla poca conoscenza reciproca, dallo scoprirsi a poco a poco nel corso dell’esistenza. E c’è una donna di mezzo.
Appare folgorante prima sotto forma di pietra, con un sorriso di giocondiana memoria, enigmaticamente seducente, terribilmente conturbante, segretamente allusivo. Quella pietra si fa donna, e ha lo sguardo tagliente eppure languido di chi sa di essere al di fuori della norma. Ecco che si palesa lentamente il triangolo sentimentale, e quella corsa dolcemente selvaggia sul ponte ne è la dimostrazione più evidente: come d’altronde il film, i tre personaggi si inseguono per tutta la storia, e degli stessi tre, i due uomini inseguono la donna.
(S)oggetto del desiderio di puro mistero coniugato alla trasgressione, Catherine è attimo fuggente sospeso nell’universo mutante, figura miticamente collegata alla letteratura d’appendice, presagio emblematico della rivolta femminista – a Truffaut non sarebbe garbata tale definizione, ma tant’è. Odiosamente inquieta, terribilmente destinata ad un epilogo inevitabile, nervosamente penzolante sulla corda dell’equilibrista ardimentosa, Catherine è il personaggio più bello del film, quello in cui maggiormente si riconducono le esigenze personali dell’autore e le istanze del pubblico.
Curioso che il titolo del film (e prima ancora del romanzo) non accolga il nome della donna: è come se rappresenti la chimera raggiungibile delle aspirazioni degli uomini della storia. Il sorriso ermetico che caratterizza l’ambiguo volto è probabilmente trasmigrazione dello spirito dell’opera: se la splendida fotografia, nitida e ben calibrata, sembra voler sottolineare un certo aspetto sereno, idilliaco, felice, in realtà la realtà dei fatti non si coniuga con la formalità succitata. Jules e Jim è un film profondamente inquieto, nascostamente indirizzato verso un destino di tragica ineludibilità, l’angoscia delle macchinazioni sentimentali che si incontra e si scontra con il contesto storico-geografico.
Declamato da un narratore inevitabile, è una sorta di romanzo per immagini (echi ben precisi de Le affinità elettive di Goethe, sia nella strutturazione del gruppo di personaggi che nell’angoscia che si respira in entrambe le opere) in cui la dimensione temporale si districa nel periodo prima della guerra, nella guerra – espressa con indifferente desolazione (la preoccupazione maggiore di Jim è quella di uccidere accidentalmente Jules – si trovano su fronti diversi) – e dopo la guerra, e in cui le ambientazioni sembrano apparentemente armonizzarsi con la storia, ma in verità sono i tentativi estremi di ricercare una sorta di serenità.
La campagna rigogliosa nella quale si erge il rifugio di Jules e Catherine, la spiaggia incontaminata (ancora il mare, già fondamentale luogo esistenziale de I quattrocento colpi), gli edifici bianchi, le strade vuote in cui crescono alberi prosperi: sono scenografie idilliache, eppure disperate. Si proietta l’anima turbata di Catherine, la cui inesplicabile disperazione – derivata dall’impossibilità di una scelta definitiva, dalla paura (?) della normalità, dalla ricerca dell’inesprimibile attraverso la carnalità – esplode in maniera totalizzante con l’insano (inevitabile?) progetto di morte: ma, rispondendo al principio ovidiano del "Né con te, né senza di te" (che, prepotente e violento, tornerà nel penultimo film di Truffaut, La signora della porta accanto), Catherine non può morire senza Jim, ossia colui che non ha mai potuto possedere perché forse meno debolmente insicuro di Jules (più naturalmente conciliatorio), o forse perché più contradditorio e minato dal dubbio.
E, come aveva lasciato presagire nella prima parte del film, quando si butta, senza un apparente motivo, nella Senna, l’auto guidata da una Catherine accecata dalla lucida follia della disperazione affonda nell’acqua (come l’acqua – sotto forma di mare – rappresentava ne “I quattrocento colpi” la possibilità di una speranza, qui l’acqua simboleggia l’irrimediabilità dell’istante), si abbandona, fugge dagli occhi smarriti di Jules. L’amore fa male, tanto per cambiare, e le conseguenze sono anche peggiori.
Jules e Jim è un film ardente, radicale e delicato al contempo, stilisticamente attribuibile alla Nouvelle Vague (che, comunque, smonta o manipola con intelligenza per congiungersi con ciò che vuole raccontare) per quel modo sensuale di accarezzare la scena. Sinuosi movimenti di macchina accolgono intensi gli occhi dello spettatore, avvolgono i volti sottilmente inquieti degli abitanti del film, che idealizzano l’amore che si distrugge a contatto con la realtà. “Tu m’hai detto: t’amo. Io t’ho detto: aspetta. Stavo per dirti: prendimi. Tu m’hai detto: vattene”: è struggente rivelazione di sentimenti fiammeggianti, parabola d’amore, di sofferenza, di morte. Fondamentale, unico, splendido.
L’innamorata cinepresa accarezza con una dolcezza infinita i suoi interpreti, illumina accecato la vita che scorre fregandosene del resto, prosegue il suo percorso con una serenità e chiarezza. Truffaut realizza un oggetto disperato e violento con una delicatezza meravigliosa. Oskar Werner ed Henri Serre sono i due protagonisti. La divina Jeanne Moreau è l’incanto della perfezione.
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