Regia di Jack Smight vedi scheda film
Questo film piaceva tanto a mio padre. Tutti i detective movies gli piacevano. Forse questi contenevano una idea fissa, ossessiva, che stentava a prendere forma nella sua testa, e che cercava di fissare in qualche modo attraverso la ripetizione. Credo che in Harper avvertisse un sottile strato depressivo, quello che mostra nei titoli di testa. Vive nel suo ufficio (evidentemente ha lasciato l’appartamento alla moglie da cui si è separato), aspetta il suono della sveglia insonne (mio padre lo era), dorme con i calzini perfettamente tirati su in piena estate (forse non ha le pantofole: buffo!), lascia la TV accesa tutta la notte; per uscire dalla testa pesante deve affogare la faccia nel ghiaccio; ovviamente non ha comprato il caffè prima di tornare, deve farlo con la miscela già sfruttata del mattino prima recuperata dalla pattumiera. Ovviamente il caffè è imbevibile. Qui gli autori non concedono nulla ad una idea un ‘machistica’ di detective tipica dei noir meno raffinati, e dipingono Harper come l’uomo che per affrontare il mondo di giorno, di notte deve dormire con l’orsacchiotto di pezza abbracciato a sé. Ecco dove vanno a significarsi le ansie, la paura di morire, quella di non farcela, il dovere feroce che ci si dà di essere all’altezza del compito, l’angoscia di tornare a casa e non trovare nessuno, di resistere alla solitudine sia affettiva che professionale, alle botte, al tremore da celare quando qualcuno si avvicina alle spalle con una pistola. Parliamo di un detective privato, ossia privato di un privato, di una interiorità dove far risuonare sentimenti così minacciosi. Quei calzini sono mio padre, sono io, siamo noi, sono il significante regale, maestosamente sommesso, in grado di dis-dire qualcosa che non è possibile apertamente dire in un detective movie, ossia che la vita è in sé stessa un sintomo.
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