Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
Venezia 79. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Il giornalista esule Silverio Gacho è il bardo latino tornato in patria per ricevere il frutto benedetto della fama raggiunta negli Stati Uniti dove per anni ha tessuto le lodi e descritto i vizi del limitrofo Messico. Non tutti apprezzano quest'uomo che lasciò un paese privato della libertà e soggiogato dal potere. Non piace perché scelse nell'esilio la libera espressione di sé. I poeti non sono profeti in patria poiché osano raccontare ciò che si conviene tacere. Silverio non piace perché ha raggiunto il successo lavando i panni sporchi del paese al di fuori dei sui confini. Tributargli un premio è doveroso per alcuno; per altri è un atto di ostilità verso i cittadini messicani che sono rimasti al loro posto, nonostante tutto.
"Bardo" è il percorso a ritroso di Silverio, un percorso che lo porta verso le radici e pretende un riesame della vita già spesa, delle decisioni prese e delle azioni compiute in terra natia. Alejandro González Iñárritu è il bardo del Messico e Silverio Gacho il suo corpo di cellulosa. Con "Bardo" il regista rimette piede in patria e gira di nuovo in lingua spagnola ma dal punto di vista artistico torna dalle parti del più recente "Birdman" con un'ironia ancor più pronunciata ed un flusso di pensieri indomabile che ricorda la strafottente coscienza dell'eroe piumato interpretato da Michael Keaton.
"Bardo" mi ricorda un incubo. Uno di quelli che alla mattina mi accompagna al risveglio, uno di quelli che interrompe il mio sonno e in cui cado, più e più volte, senza poterlo disinnescare. E c'è di tutto in quei sonni mattutini che uno dietro l'altro occupano il mio riposo. Un chiasso di immagini e suoni. E poi ansie che diventano materia e oggetti che mutano in corpi molli la loro forma. Un gran casino che il film di A.G.I riassume in immagini fuori dagli schemi e sensazioni plausibili manipolando il reale e trasformando le esperienze vissute in una riscrittura onirica del passato. Eppure "Bardo" conduce verso un finale razionale, in cui tutto si concilia sul sedile di un vagone metropolitano.
In "Bardo" la vita è un viaggio in avanti e la morte è un viaggio all'indietro. Gacho percorre entrambi i sentieri in un percorso accidentato, psichedelico e allucinato. Un viaggio che è un saggio scritto nell'interminabile tempo dell'incoscienza e permette di metabolizzare perdite dolorose, amicizie troncate, rapporti travagliati e sogni infranti. Il via vai tra presente e passato mostra le cicatrici non ancora guarite dell'uomo. Un feto che non desidera nascere e ritorna schifato nell'utero materno è il figlio perso alla vita al momento della nascita; i seni all'occhio di bue ricordano una dolceamara fantasia adolescenziale e la malinconica fine della fanciullezza destinata a non tornare mai più; i protei nel sacchetto alludono ai sensi di colpa di Silverio per una presenza distratta (cieca) e un'esistenza poco dedita alla famiglia. Silverio sente nei confronti del figlio la stessa irrisolta conflittualità palesata al proprio padre al cospetto del quale è un "microscopico adulto" o il moccioso di un tempo.
Nel letto di casa si consuma il viaggio nella memoria di Gacho e quello nell'anima flagellata di un paese fondato e cresciuto nella violenza e nella miseria. II sentimento di Silverio diventa allora il rimorso di un intero paese costretto a confrontarsi con piramidi di cadaveri e strade ricoperte di corpi che a vario titolo evocano il genocidio delle popolazioni precolombiane e la violenza della criminalità organizzata che miete vittime su vittime. È c'è spazio anche per un corteo di migranti che altro destino non hanno che attraversare il deserto alla ricerca di una vita migliore a nord. Nel migliore dei casi il loro futuro sarà costellato di episodi di razzismo a buon mercato. Meglio che la fame.
"Bardo" è, dunque, un caleidoscopio di immagini che si rincorrono, si affastellano, si accatastano una sull'altra, ora sfavillanti e colorate ora cineree ed inquietanti. È la resa dei conti, l'opportunità di mettere fine a ciò che è rimasto sospeso prima che la morte chiuda il cerchio attorno alla vita. Tuttavia il film di Iñárritu non è un film sulla morte ma un inno alla vita e alla passione che la stessa custodisce. Un'esortazione a non lasciarsi vivere e non credere di essere arrivati.
Orsù, dunque, bardatevi e correte a vederlo, voi che abitate vicino alle pochissime sale che lo proietteranno da oggi. Fatelo prima che i soldati confederati puntellino la loro bandiera sui pinnacoli dei palazzi della capitale, prima che Amazon si compri il resto del Messico o Netflix faccia a brandelli questo giocoso flusso di pensieri per renderlo affine al logaritmo, sempre che la versione che finirà in sala non sia già stata decurtata di quei venti minuti tanto indigesti.
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