Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
Uno spaccato di vita e di fratellanza sincero, e un convinto atto d’accusa sociale nel recente film dei fratelli Dardenne
Jean-Pierre e Luc Dardenne, due volte premiati con la Palma d'oro a Cannes per il miglior film (“Rosetta” e “L'Enfant”), portano al cinema il loro dodicesimo lungometraggio di fiction, “Tori et Lokita”.
Dopo una carriera in cui hanno alternato parecchi documentari con film a soggetto, i fratelli Dardenne tornano a raffigurare nuovamente, e con coerenza stilistica e morale, il reale e la sua crudezza.
Questa volta l’ingiustizia denunciata è nell’atto d’accusa a una società che si muove esclusivamente per interessi economici, interessi che, spesso, vano a discapito di civiltà, morale e umanità.
La pellicola racconta di due immigrati e della loro fratellanza, una fratellanza non biologica, bensì dettata dal reciproco aiuto di chi vuole raggiungere un posto in cui vivere tranquillamente lontano dalle atrocità del proprio Paese natio. Accolti in un centro di accoglienza in Belgio, i due giovani immigrati - un bambino (Tori) e una ragazza adolescente (Lokita) - sono africani.
I due sono qui costretti a fingersi fratelli, sia perché entrambi hanno perso le loro famiglie, e sia perché sentono reciprocamente la necessità della forza dell’altro da usare come arma contro la terribile condizione dell’essere adolescenti esiliati, abbandonati, sfruttati e umiliati in una terra straniera.
La sinossi ufficiale: un bambino e una ragazza adolescente hanno affrontato da soli un difficile viaggio per lasciare l’Africa e arrivare in Belgio. Qui possono fare affidamento solo sulla loro profonda amicizia contro le difficoltà dell’esilio.
Come esplicitato dalla sinossi, l’opera in questione è la storia di un’intensa e salda amicizia, prima ancora che una denuncia della situazione ingiusta vissuta da questi giovani in esilio in Europa. E’ questo legame che i registi-sceneggiatori vogliono descrivere per suscitare empatia nel cuore dello spettatore. Un legame affettuoso di chi non può stare senza l’altro; di chi vorrebbe avere una famiglia pronta a proteggerli, sostenerli e consolarli; di chi non vuole rimanere solo ad affrontare paure, ansie e angosce del quotidiano.
Il modo in cui la sceneggiatura descrive la tenera relazione tra Tori e Lokita, è messa in scena con il consueto stile cinematografico a cui ci hanno abituato i fratelli Dardenne, quello del movimento e del pedinamento dei corpi dei due protagonisti nelle loro vicende. Ci si sofferma sui dettagli dei gesti, degli sguardi e dei silenzi di costoro; e si evidenzia questa loro amicizia, autentico rifugio di dignità umana da preservare in una società sempre più dominata da cinismo e indifferenza.
La cinepresa li segue nei loro continui spostamenti, nelle loro difficoltà e nelle trappole in cui cadono quasi inevitabilmente (la microcriminalità, lo spaccio della droga, utili a sopravvivere), e nel circolo vizioso di violenze in crescendo, continue minacce, ricatti e abusi, dal quale sembra impossibile uscire.
Lo spettatore si ritrova così al fianco dei due protagonisti, sempre più visti non come personaggi ma come persone (non è un caso se sono interpretati da due attori non professionisti, Mbundu Joely e Pablo Schils – davvero credibili e convincenti), e soprattutto come allegoria di tantissimi giovani immigrati in Europa, abbandonati dalle istituzioni e dati in pasto alla criminalità.
Le stesse istituzioni che li hanno in carico infatti sono schiave di regole e burocrazia, e, quasi alla pari della microcriminalità nella quale si incappa, non possono far altro che negare quell’unico necessario senso di umanità (e solidarietà) nella drammatica condizione dei due immigrati.
La denuncia sociale di “Tori e Lokita” si sposa con l’impegno civile dei Fratelli Dardenne che da trent’anni esplorano le vite degli ultimi, dei dimenticati del mondo occidentale mediante un cinema antiretorico e sobrio, asciutto, lineare ed essenziale, che non scade (quasi) mai nell’eccesso didascalico, nel patetico o nel melodramma ricattatorio; un cinema tra il documentario e il romanzesco, dove la realtà, nella sua complessità (pronta ad affiorare dalla fenomenologia del quotidiano vissuto dai protagonisti) e crudezza (spesso terrificante) è descritta con sensibilità e forte senso del pudore – una poetica che poi corrisponde anche all’etica di questi due registi.
Nella vicenda raccontata dal film, la violenza è solo suggerita, mai mostrata; e la portata cinematografica è morale, ma non moralistica, suscita indignazione ma invita soprattutto all’impegno civile individuale di ognuno di noi in società. Il loro è uno stile di regia che a partire dalla sceneggiatura alla messinscena mira al pieno coinvolgimento emozionale dello spettatore.
E anche questa interessante e godibile pellicola ci fa emozionare e riflettere: Tori e Lokita scopriranno che anche nel continente europeo, così tanto agognato, non si riesce a trovare serenità e libertà. Sogni, desideri e aspettative diventano incubi, delusioni, miraggi e illusioni. Il continente europeo che dovrebbe essere inclusivo, da una parte respinge i migranti, dall'altra li costringe a ricorrere all'illegalità per poter sopravvivere.
Tutto diventa una lotta, una lotta per la sopravvivenza, sempre, comunque e ovunque.
Persino l’arduo ottenimento burocratico dei documenti necessari assume i connotati di una tragedia: senza quel foglio di carta che attesti una reale parentela con Tori, Lokita rischia di ritornare a casa.
Attraverso l’innocenza tradita dei due giovani e il loro viaggio (anche interiore) si viene messi davanti a una realtà che non è mai quella che sembra, e nella quale non c’è spazio per le personali debolezze quando ci si scontra con le prove dettate dalle ingiustizie e crudeltà della vita.
Il film non spicca tanto per originalità [il tessuto sociale belga ed europeo che rimane freddo di fronte allo sfruttamento minorile degli immigrati, era già stata l’elemento narrativo e tematico di “La Promesse” (1996)], e latita sia di quella potenza d’impatto visivo e emozionale che facevano il fascino dei capolavori iniziali dei fratelli Dardenne (si pensi a “Rosetta” o a “Il figlio”), sia di quella forte efficacia dettata dalla solidità e compattezza narrativa/argomentativa delle ultime opere (si pensi a “Il ragazzo con la bicicletta” o a “Due giorni, una notte”); soffre poi, a livello di scrittura, di una certa programmaticità e forzatura, apriorismo e costruzione a tesi a scapito della contraddittorietà e ambiguità della realtà; e si avverte a tratti una debolezza generale; però, malgrado questi limiti e queste discontinuità, riesce comunque a commuovere, a coinvolgerci, a regalarci uno spaccato di vita e di fratellanza sincero e profondo.
Perché è un cinema umanistico e necessario che è capace di dialogare con il pubblico, fino al punto da esortarlo a non voltare le proprie spalle agli ultimi e agli esclusi della società, ma di puntare invece tutto sulla carta umanitaria della solidarietà civile (pari solo all’amicizia profonda vissuta dai due giovani nel film), come unica ancora di salvezza in un mondo crudele…
CURIOSITA’:
1. Il film ha vinto il Premio del 75º Anniversario al Festival del Cinema di Cannes 2022.
2. La colonna sonora include i seguenti brani: “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi, “Si Je Chante” di Sylvie Vartan, “Rue Du Desert” di Adrienne D’anna & Alberto Di Lena, “Tirambik” di Marù, “Jam A L’escalier” di Snippet.
3. La pregevole locandina di questa pellicola è stata realizzata da Manuele Fior, tra i più apprezzati fumettisti e illustratori italiani.
VOTO: 6 / 6½
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