Regia di Agnieszka Woszczynska vedi scheda film
Film di distanze, tra gli uomini e tra uomini e natura, una natura scabra, minacciosa, un mare che s’infrange mugghiando sulla roccia, nuvoloni neri pieni di pioggia, vento che urta contro le finestre.
La piscina può essere un posto malsano, e non solo per l’eccesso di cloro ma perché di piscina si può morire.
E al cinema accade spesso.
Questa di Silent Land è una piscina vuota in una bella villa su un pezzo di costa sarda rimasto miracolosamente immune da insediamenti miliardari.
Anna e Adam, coppia polacca perfetta incarnazione della tipologia nordica sul piano fisico e comportamentale, dotati evidentemente di mezzi cospicui, hanno affittato la villa per un buen retiro rilassante e solitario.
Nulla di più sbagliato. Il relax auspicato resterà una chimera per tutto il film che mantiene, con implacabile misura, un ritmo ascendente lento e inesorabile fino a sconfinare, superati i confini del reale, nell’irreale.
Perché i morti non parlano, ma la loro presenza, amorevole o minacciosa, non ci lascia mai, siede a tavola con noi, s’insinua nella mente e nei sogni ci ammonisce o ci delizia.
Per farla breve e per la gioia di chi ama le trame esplicite, i due vogliono la piscina e l’affittuario, un bonaccione titolare della trattoria in paese, cerca affannosamente di spiegare che l’acqua scarseggia, che farà di tutto, che abbiano pazienza.
Un tg, guarda caso, comunica che l’emergenza idrica in Europa è grave, tranne che in Polonia. Ma va’!!!
Comunque l’acqua arriva ma in quella bella piscina non si tufferà mai nessuno.
Perché?
Perché ci galleggiava il morto. Chi? Un immigrato (lo chiamano “l’arabo”) che ha fatto i lavori di risistemazione e all’improvviso è scivolato e pluff, è caduto giù affogando Tutto qui, non accade altro e il film potrebbe finire qui per gli amanti dei colpi di scena e degli sviluppi drammatici.
La giovane regista polacca Aga Woszczynska, al suo primo film, invece decide di raccontare la storia vera, quella che non si vede, coperta com’è dalla facciata che accuratamente imbellettiamo ogni giorno a lode e gloria del vivere sociale.
Si pensa ad Haneke, per la forma straniante delle relazioni umane, algide nella fissità immemore dei personaggi, manichini di un teatro dell’assurdo.
Si pensa ai silenzi de Il settimo continente dove: “… la famiglia mononucleare collassa in un’autodistruzione gelidamente calcolata e abilmente nascosta al mondo esterno, cellula di una società profondamente malata, dove la soluzione scelta dai tre sembra essere l’unica via d’uscita possibile”.Il linguaggio, prodotto primo dell’intelligenza, è stato anche il primo ad essere eliminato da Georg e famiglia. L’ultimo, lauto pranzo dopo la gran spesa al supermercato, luogo-feticcio della contemporaneità, avviene nel silenzio totale.
Non c’è però qui la crudeltà di Haneke, tutto prosegue all’insegna di un pacato train de vie in cui nessuno si fa male, tranne il povero “arabo”, ma tutti sono anime morte senza speranza di redenzione.
Film di distanze, tra gli uomini e tra uomini e natura, una natura scabra, minacciosa, un mare che s’infrange mugghiando sulla roccia, nuvoloni neri pieni di pioggia, vento che urta contro le finestre.
Film di rumori, secchi, deflagranti. Fanno un dannato rumore le saracinesche che Adam tira su e giù, rompe i timpani il trapano che l’”arabo” sta usando in piscina, anche la tarantella in piazza è accompagnata di un frastuono fastidioso.
Solo il guaito del cane morente, lasciato per strada da una di quelle camionette con militari che si vedono spesso, risuona di pietà e dolore e Adam, con i suoi sensi di colpa tutti addosso, lo aiuta a morire.
I sensi di colpa della coppia sono accuratamente rimossi, pare che ci sia stata omissione di soccorso, erano in casa, addirittura in terrazzo, potevano salvare la vita all’”arabo”.
Ma nessuno lo dice, neanche a sé stesso, men che meno alla polizia che chiude sbrigativamente la pratica. Il turismo innanzitutto e gli immigrati chi li conosce?
Eppure, nel foro interiore della coscienza, almeno in quello che ne rimane, la colpa lavora, scava, è una mina vagante. La coppia si disfa, si sgretola, nulla resta del poco che c’era, qualche insulto finale, poca cosa, torneranno in Polonia e il mare si richiuderà su di loro ricacciando sul fondo le miserie umane. Resteranno insieme? Chi può dirlo? Probabile, si naviga col vento in poppa sulle disgrazie altrui, ci si sente immuni, basta ripetersi il solito mantra "La vita continua".
www.paoladigiuseppe.it
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