Regia di Mario Martone vedi scheda film
L'ultra cinquantenne Felice (Pierfrancesco Favino) dopo ben quarant'anni, ritorna nella natia Napoli, nel rione Sanità in cui viveva un tempo, prima che dovette lasciare tali luoghi per oscuri motivi, tentando la fortuna all'estero, in Africa, barcamenandosi tra Egitto e Libano, prima assieme allo zio, poi da solo; forse per questo motivo è riuscito a fare fortuna, assimilando gli usi e costumi locali, convertendosi all'islam, trovando inoltre una donna con la quale è in procinto di sposarsi.
Nel rione gli edifici, i posti e persino la gente sono rimasti gli stessi, più invecchiati ed acciaccati, ma quarant'anni, non sono nulla per una città con oltre due millenni di storia alle spalle; ma Felice al suo arrivo, nel luogo della sua infanzia persa tra le pieghe del tempo, percepisce tutto sfocato, il panorama di quella Napoli quando si affaccia dal terrazzo, oramai è un qualcosa di estraneo alla sua percezione dei sensi; i vicoli non sono cambiati, ma oramai li percepisce per lo più estranei sue passeggiate, un posto vale l'altro, arrivando a consumare la sua prima pizza del ritorno in un locale turistico di basso livello, quando avrebbe potuto trovare nelle vicinanze dei locali infinitamente migliori per tale alimento.
Felice vaga per la città natia, che oramai non gli appartiene più, cercando di diseppellire i ricordi di un tempo lontano, che celano al loro interno i terribili fantasmi sulla verità della sua fuga. Il ritorno alla madre Teresa (Quattrocchi), oramai ultra-anziana, malata e cieca, diviene un tentativo di ristabilire un contatto con quelle radici appartenutagli in passato, in un gioco psicanalitico in cui la mamma diviene un catalizzatore di ricordi, odori e sensazioni, che iniziano finalmente a sbloccarsi poco a poco nella sequenza del lavaggio, in cui il figlio ritornato, immerge la nuda genitrice in una vasca di legno, illuminata a stento dalla fioca luce di uno squallido quanto piccolo appartamento, attraverso un'operazione affettiva, di riappropriazione di un'identità originaria lasciatasi alle spalle, che necessità di partire dall'essenziale legame genitore-figlio, per poter ri-sviluppare un albero dalle radici forti. Martone in Nostalgia (2022), tratto dal romano di Ermanno Rea, muove il suo discorso filmico sulla direttiva ricordi-parlata.
Felice spiccica un'italiano grossolanamente stentato, con un fortissimo accento arabo; uno straniero in patria quindi, visto come tale da qualche conoscente, che resta interdetto dal suo parlato, visto che l'italiano nei quarant'anni di lontananza, lo avrà utilizzato quelle pochissime volte solo nella scrittura delle lettere alla madre, senza poterne far uso nella conversazione quotidiana, dove l'arabo per anni ha predominato, seppellendo quasi totalmente l'humus culturale originario dell'uomo.
Mano a mano che procede la narrazione, in coerenza con la poetica di Martone sulla storia portatrice di un forte carico di passioni, che influenza la vita degli individuo, veniamo introdotti nell'architettura urbana di una Napoli sviluppata verticalisticamente, dove però quando si sale verso l'alto, non si è mai liberi, per via della conformazione claustrofobica della struttura, dove c'è sempre qualcuno più in alto di te, nell'atto di osservarti, rendendoti di fatto un prigioniero all'aria aperta.
Il legame con il prete anti-mafia don Luigi Rega (Francesco Di Leva), contribuisce a dissipare quell'aura di mistero audio-visivo, che si era increspata attorno alla mente di Felice, facendo però ritornare dal passato, ostilità che si pensava di essersi lasciati alle spalle, trasformate dall'alterazione dei ricordi in bravate da risaputo filmino in Super 8, de-privando con tale modalità visiva, dell'intrinseca essenza di tali gesti compiuti.
Il regista, alle prese con una prima parte di una storia che ricalca in parte l'Amore Molesto (1995), film che lo lanciò come talento da tenere d'occhio, è padrone della materia sia dal punto di vista narrativo, che tecnico, restituendoci tramite la fotografia di Paolo Camera, lo spirito autentico di una Napoli, per nulla da cartolina. Martone purtroppo cala alla distanza, con la parte prettamente romanzesca, tra ripetizioni e didascalismi insiti in una gestione di una componente romanzesca di impegno civile in chiave "presente", abbastanza lontana dal modo di concepire il proprio cinema, con un confronto alquanto deludente con il boss Oreste (Tommaso Ragno), anche lui invecchiatissimo, a cui non basta di certo una felpa con cappuccio per farne un tipo "tosto" quanto minaccioso, servendo solamente nel più didascalico dei modi, a far riappropriare la parlata vernacolare a Felice, concludendo anzitempo tutto ciò che la pellicola aveva da dire, chiudendo il tutto con una conclusione ultra-scontata e già vista molte volte nella costruzione cinematografica in passato. Opera minore di Martone indubbiamente, snobbata a Cannes dai premi, quando almeno meritava di portarsi a casa il premio miglior attore per un Pierfrancesco Favino superlativo, sconfitto ancora una volta dopo Banderas nel 2019, dalla moda asiatico-sud-coreana rappresentata da Song Kang-oh.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta