Regia di Mario Martone vedi scheda film
Il mare non bagna Napoli
“Il mare non bagna Napoli (di Anna Maria Ortese ndr.)è una straordinaria discesa agli Inferi: nel regno della tenebra e delle ombre, dove appaiono le pallidissime ?gure dei morti. Di rado un artista moderno ha saputo rendere in modo così intenso la spettralità di tutte le cose, delle colline, del mare, delle case, dei semplici oggetti della vita quotidiana ...”
PIETRO CITATI
E il mare continua a non bagnare Napoli. Nel rione Sanità c’è un Limbo sospeso di uomini e donne spettrali, che appaiono dal passato e svaniscono come ombre nelle catacombe che formicolano di teschi sotto l’asfalto. In superficie rombano motociclette in raid serali, si spara a caso o per ordine del piccolo boss del quartiere, si bruciano moto per dare un segnale, si scrive “scompari” sul muro di casa del reduce scomodo tornato dopo quarant’anni.
Felice arriva da un esilio lontano perché la nostalgia è un male che ti porti dietro sempre, anche quando sai che non dovresti.
Felice, un Favino che domina ogni scena di questa descensio ad inferos di cui il lago Averno apre ancora le porte a due passi dalla città, era scappato, aveva quindici anni e lo zio l’aveva messo su un aereo diretto in Libano. Da lì in Africa, e al Cairo aveva fatto fortuna, imprenditoria edile, trovato la donna giusta, insomma, perché tornare a Napoli?
E perché scappato?
A quindici anni è facile fare cazzate, soprattutto se s’incontra l’amico giusto che la violenza ce l’ha nel DNA e tu sei un ragazzotto che, tra vicoli e bassi, dai tanti pensieri a quella povera madre senza marito.
C’era scappato il morto, quella volta, un furtarello e un lago di sangue che per Oreste, che aveva spaccato la testa al poveraccio, fu il battesimo. Delutto impunito, un cold case che nessuno mai aveva riaperto, da allora Oreste aveva fatto carriera, la camorra si dirama in mille rivoli, ogni quartiere ha il suo “malommo”, la gente tace, subisce, magari ci specula, qualcuno ci guadagna, il don Luigi di turno tuona dal pulpito, aiuta i ragazzi a non finirci dentro, accoglie qualche immigrato, prima o poi lo faranno fuori.
Felice ha nostalgia di questa Napoli che il mare non bagna.
Martone l’aveva fatto vedere quel mare dal terrazzo con vista mozzafiato sulla città di don Antonio Barracano, il “sindaco” del rione Sanità, un imprenditore del crimine di nuova generazione, niente a che fare con Eduardo.
Per Eduardo Don Antonio “non è un “padrino” ma un uomo che ha vissuto sulla propria pelle l’ingiustizia e che, per amore della giustizia e sfiducia negli uomini, se la fa da sé con i mezzi a propria disposizione”.
Ma Oreste chi è? Tommaso Ragno gli dà voce (poca) e carisma (molto).
Era l’amico di scorribande giovanili, di bagni dopo una corsa in moto sul litorale libero da case di vacanzieri e immobiliaristi predatori, era il giovanottone muscoloso che dava una lezione a cinghiate a quelli che avevano fatto male al suo amico.
Questo orizzonte è rimasto nell’anima di Felice, dopo quarant’anni si convince di ritrovare le cose com’erano quando non capiva com’erano, perché neppure quarant’anni prima il mare bagnava Napoli.
Esattamente come quando Anna Maria Ortese la vide distrutta dalla guerra.
Sembra un destino, Napoli non cambia, se mai si adegua.
Oreste vive una vita da recluso, “sul fondo oscuro del quartiere”, dice qualcuno a Felice che lo vorrebbe incontrare.
Usura, prostituzione, piccola criminalità, carriere all’ombra dello Stato che latita, una specie di colonnello Kurtz senza Vietnam, ma con la stessa pazzia, la stessa ottusità.
Felice attraversa un sogno, è rimasto il ragazzo di quindici anni che crede nelle favole, ha vissuto una vita parallela che non era la sua, ora la rivuole, quella vita, e non sa che non c’è più.
La madre è quasi cieca, gli muore dopo qualche giorno nella casa luminosa dove l’ha messa il figlio strappandola a quel putrido basso.
Nei vicoli della sua giovinezza cammina sicuro, e poco manca che quelle moto lo facciano volare via.
Don Luigi lo porta in giro per case e famiglie che ammutoliscono quando sanno che lui è amico di Oreste.
Felice ha ritrovato solo la sua lingua, alla fine è quella che riprende a parlare da quello strano italiano islamizzato che gli era cresciuto dentro.
Vede il suo futuro in quella Napoli da cui l’avevano esiliato, ora la deve vivere, è il suo mondo, la sua nostalgia.
Sarebbe andato al mare con la sua dolce compagna fatta arrivare dal Cairo.
Ma quel mare non c’è.
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