Regia di Mario Martone vedi scheda film
Scendere negli abissi, ma respirare aria fresca
Mario Martone continua a posare il suo sguardo gentile, misurato ma palpitante sulle storie vecchie, vecchissime, e contemporanee che si incrociano in questo contraddittorio paese. Questa volta parte dal desiderio di tornare a “pulirsi le mani” nel brulichio impazzito della sua città, sospinto dall’innamoramento per il romanzo di Ermanno Rea del 2016. Offre a Pierfrancesco Favino l’opportunità di fare altrettanto invitandolo alla lettura dello stesso. Questa piccola grande gemma vede la luce così.
Felice Lasco/Favino, trascorsi quaranta anni dalla sua imposta e ineluttabile fuga in Africa, scappando dal quartiere nativo della Sanità, zona “difficile” per antonomasia a Napoli, sente il desiderio di tornare alle sue origini. La madre è anziana e le poche lettere che si sono scambiati negli ultimi anni gli hanno lasciato (a ragion veduta) un senso di insufficienza; avverte troppe zone d’ombra, sente di aver perso le connessioni emotive, o forse l’illusione di averle mai avute è svanita col passare del tempo. Complice una moglie amorevole e una posizione sociale rassicurante nella media borghesia del Cairo, può finalmente fermarsi a respirare, dopo decenni di corsa a perdifiato per scappare da un segreto indicibile. Può, ma in realtà deve, tornare ad occuparsi della frattura che ha cambiato la sua adolescenza. E dunque la sua vita.
In punta di piedi, ma senza esitazioni, poco alla volta riprende le misure al quartiere, alla sua lingua madre ma soprattutto al suo dialetto, che prova a recuperare con buffi e sublimi tentativi di sincretismo. Prende atto della condizione di privazione della madre che per pudore non gli erano state comunicate. La accompagna con tenerezza e poesia verso una fine gentile, donandole un po’ di requie dopo una vita trascorsa sotto la feroce dittatura della necessità (“era la meglia sarta del quartiere Sanità”). Si avvicina con timido entusiasmo alla piccola comunità che ruota intorno alla figura di Don Luigi Rega, parroco nella chiesa del “Monacone“, che con la sua cupola domina anche simbolicamente il quartiere (Totò sul sagrato vi girò una magnifica sequenza iniziale nell’episodio del “pazzariello” ne “L’oro di Napoli” di De Sica). Don Rega è un perfetto calco di Don Antonio Loffredo, parroco in carne ed ossa della medesima parrocchia: protagonista di importanti opere di recupero sociale e di iniziative volte a coinvolgere e promuovere l’emancipazione di ragazzi provenienti da famiglie difficili, abile comunicatore, coadiuvato da un monumento di questo paese quale Alex Zanotelli, Don Loffredo è diventato un riferimento cittadino, ed un simbolo di rinascita del quartiere. Francesco di Leva si tuffa nel personaggio con ardore, forse un po’ eccessivo, e scontando forse una certa prevedibilità nella recitazione. Ma fornisce plasticità e credibilità assolute alla figura, e rende un grande contributo alla riuscita del film.
Felice lentamente riprende contatto anche con il suo segreto, e con la sua cattiva coscienza di ragazzo che a quindici anni è stato fatto fuggire via dal quartiere senza aver trovato il modo di opporvisi, tantomeno di salutare il primo oggetto di amore della sua vita. È Oreste, suo compagno di giochi e di scorribande infantili e adolescenziali al limite, e spesso al di là, della legalità. Quegli amori provvidenziali che nascono con i calzoni corti e, accidenti della vita o meno, arrivano fino alla canizie, per coloro che sanno restare in ascolto con se stessi. Il loro idillio, che tanto faceva penare la madre che temeva che il piccolo Felice potesse prendere la cosiddetta cattiva strada a cui il suo amico pareva già essere inevitabilmente destinato, va in frantumi per un furto in un appartamento finito male. C’è una vittima, inaspettatamente. Oreste ha reagito d’istinto ad una pistola puntata contro, e da quel momento niente sarà più come prima. Felice è frastornato, non accusa il compagno ma assicura di essere innocente. Non c’è via di uscita, il ragazzo deve essere portato via: inizia la sua disperata peregrinazione africana.
Oreste rimane, non potrebbe essere altrimenti. Sente di essere stato tradito dal suo amico di sangue, non riceve nemmeno più una cartolina. Ma la vita è feroce, e il suo percorso nella perdizione della camorra non può essere arrestato. Lo si ritrova quarant’anni dopo, capo incontrastato della malavita del quartiere, e di gran parte della gente che vi abitano. Vive solitario e protetto in un appartamento immerso nel verde delle colline che accerchiano il quartiere, in un bunker dove sorveglianza armata, silenzio, alcolici e ferine prestazioni sessuali a richiesta segnano il tempo che passa. Il ritorno di Felice inevitabilmente turba il ras del quartiere. Per quali motivi? Troppi per essere detti, probabilmente.
Felice inizia così una splendida danza di avvicinamento al suo amico di infanzia, che nel frattempo ha ordinato di rendergli difficile la vita con continui atti di vandalismo. Ma il ballo non si ferma, giustamente. Felice ignora tutte le sirene che lo vorrebbero spingere ad andare via, a stare quanto più lontano possibile dal “mal’ ommo”. Perché una pietra, se ha coperto una voragine per quaranta anni, sembra tutti gli dicano, non può continuare a fare il suo lavoro? Ma tanto Ermanno Rea, quanto Martone e soprattutto Favino, sanno bene che arrivati a questo punto di una storia, il problema non è dare la risposta giusta alla domanda, bensì la inconsistenza della domanda stessa.
I due amici alla fine si rivedono, e tutto fa rabbrividire: lo squallore della casa, la devastazione nel corpo del boss trincerato nello squallore di quelle mura, il terrore negli occhi di Favino quando vede Oreste che fruga in un cassetto, la parlata timorosa di Felice. Eppure tutto è perfetto. La dialettica emotiva poco alla volta si fa strada, ognuno porta le sue ragioni con le stesse parole e gli stessi colori che avrebbero avuto se avessero potuto parlarsi quaranta anni prima. Il boss è sconvolto dalla propria lacrima di commozione quando si rende conto che Felice lo apostrofa con l’offesa napoletana più bella che ci sia, quel “sì (sei) tutt’ strunz’” che è una dichiarazione di amore perenne, nella grammatica maschile della città. Si sono toccati. Può bastare. Oreste lo fa accompagnare e si premura di far sapere che quello che devono riportare “giù” è un suo amico.
Da un certo punto di vista, si può dire che il film termini qui. Tutto quello che ne segue è fatto di scaramucce, come un masso che cade giù dalla vetta dell’altura e prende casualmente una certa direzione, travolgendo certi alberi invece che altri.
Tutti sanno come andrà a finire, eppure tutti dovrebbero essere sollevati dal fatto che ciò più contava è avvenuto. Il sublime ha preso forma reale in quella lacrima provocata da quel “si strunz”. Favino/Felice lo sa, e accetta col sorriso di restare alla Sanità, vuol vivere lì e vuole anche che la moglie lo raggiunga. Un pazzo? Un ingenuo? Un sognatore? Uno splendido realista, invece.
Martone governa l’andatura di questa magnifica storia con perizia assoluta. Cerca, e trova, una fotografia perfetta, con Paolo Camera che regola la misura tra la sovraesposizione a cui forse si sarebbe potuto pensare immaginando la confusione del quartiere, il suono molesto dei suoi motorini sempre in azione, la iperstimolazione violenta; e dall’altro lato invece un altrettanto prevedibile “viraggio al seppia” che pure sarebbe stato congruo, specie nelle scene magnifiche in cui si ripercorrono le scorribande dei due ragazzini felici di stare conoscendo la fedeltà, mentre sulle loro moto si inerpicano sulle salite nella natura più fitta del quartiere. È una luce invece evocativa quella che promana dalla pellicola, che (oltre a quello che una volta era il fotogramma), conduce lo spettatore nello sconfinato e affascinante universo del sottotesto.
Emozionante anche la scelta della colonna sonora, con Steve Lacy straniante ed una psichedelia tedesca anni 70 - quella dei Tangerine Dream - che stride armoniosamente con l’anima selvaggia di un quartiere violento. Una scelta che rimanda a quella altrettanto sorprendente e riuscita di fare accompagnare le intemerate vere o immaginare del suo Leopardi/Elio Germano dai virtuosismi sintetizzati di Apparat.
Pierfrancesco Favino tocca la perfezione in alcuni punti, modulando la veridicità del suo dialetto arabo napoletano che col passare del tempo riacquisisce sempre più carnalità, contrappunto perfetto alla gioia di Felice che sa di aver compiuto la cosa più difficile della sua vita cercando quell’incontro, e che il timore della morte non lo potrà mai più sfiorare. E quando per caso incontra il suo inevitabile carnefice, che di impeto nega a se stesso il proprio amore, per invidia e analfabetismo emotivo, dal volto di Favino traspare la sensazione che in quel momento Felice non possa stare in nessun altro posto al mondo se non lì.
Un tributo a Tommaso Ragno, un grande attore che inspiegabilmente continua ad essere sottovalutato. Si cala nel vortice del male mantenendo credibilità e rigore pur muovendosi in un territorio poco conosciuto. Il fugace disorientamento sul volto quando, frugando nelle tasche del suo amico appena sacrificato, trova una foto che li ritrae adolescenti e sorridenti, è di una intensità che difficilmente si dimentica.
In definitiva, può essere detto che siamo stati di fronte a un’opera nient’affatto caratterizzata dal contesto “difficile” del quartiere Sanità, come invece è stato detto da qualche parte. Nient’affatto sporcata dalla presenza incombente della malavita e della emarginazione sociale. È una storia invece universale, di amore e di odio, shakespeariana da un certo punto di vista. Fatta di slanci e di miserie umane, in gran parte amplificate e deformate da un sistema sociale corrotto. Verso il quale, pur con tutte le contraddizioni e ferocie, la città di Napoli e in special modo il quartiere della Sanità provano a trovare delle contromisure.
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