Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film
I primi quindici minuti sono perfetti: una ragazza ha un incidente in macchina. Un'anziana coppia si ferma per soccorrerla, ma viene investita da un camion in arrivo. Marito e moglie finiranno in ospedale, in condizioni gravissime. Sono i genitori di tre figli: il più piccolo di loro è un omosessuale bonario; il mediano (Poupard) è un uomo dedito ad alcol e droghe, con qualche occasionale velleità di successo letterario e che ha perso suo figlio quando questo aveva solo sei anni; la più grande (Cotillard) è un'affermata attrice di teatro che abusa di psicofarmaci, isterica quanto basta. Questi ultimi due non si vedono da anni, si odiano, ma sono costretti a ritrovarsi al capezzale dei genitori.
Dopo I fantasmi d'Ismael e Tromperie, Arnaud Desplechin dimostra ancora una volta di volersi prendere gioco dello spettatore imbastendo un pasticcio raffazzonato che per un'ora e cinquanta pone sempre la stessa domanda a chi ha pagato il biglietto per l'ingresso in sala: ma 'sti due perché si odiano? Cosa è successo? Spoiler (se non lo volete sapere, fermatevi qui). Risposta: niente. Sentimenti che sfociano in risentimenti, gelosie e invidie che non si possano risolvere con una spicciativa chiacchierata in un bar e una pacca sulla spalla. Siamo al grado zero della finezza psicologica. Ma non basta: Desplechin vuole fare il piacione a tutti i costi. E allora perché non infilarci una sottotrama con un'ammiratrice rumena? Perché non dare posto al figlio di Alice, un sedicenne che sembra la controfigura di Mariangela Fantozzi, senza alcuna ragione? Perché allungare il brodo con l'amputazione della gamba dell'anziana incidentata, visto che questo elemento non ha alcuna rilevanza narrativa? E perché non metterci anche una spruzzata di incesto e magari una fuga finale in Africa, un intervento della polizia, un cellulare che cade e si bagna? E così via, irritando lo spettatore con una serie di dettagli inutili, raccontati male, di una rozzezza psicologica imbarazzante, che mettono a nudo l'incapacità del regista di esprimere le ragioni profonde di questo odio reciproco.
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