Regia di Christopher McQuarrie vedi scheda film
Prima parte di quello che dovrebbe essere l’epilogo della saga. Spettacolarità assicurata, ma pellicola scialba nel contenuto. Intuizioni, intrecci, scambi di ruolo, alta tensione e coinvolgimento emotivo appartengono agli episodi precedenti. Anche Ethan Hunt sembra la maschera di sé stesso…
“La sua missione, se dovesse accettarla. . .”.
Ethan Hunt ha accettato, Tom Cruise stavolta non l’ha compiuta.
La mission impossible è arrivare alla soglia dei 60 anni (oggi ne ha 62) e girare il settimo capitolo della saga iniziata nel 1996 senza scendere a compromessi col fattore anagrafico: l’asticella non viene bassata di un centimetro, stesso livello di spettacolarità e coefficiente di pericolosità a tratti innalzato.
Ricordiamo che Tom Cruise è anche un attore, perché è anche uno stuntman.
Come ormai sanno pure i sassi, scala montagne e grattacieli, si tuffa su Parigi in paracadute, vola in motocross da un pendio roccioso, tutto in primissima persona e con gli effetti speciali ridotti all’osso (John Woo ancora sta tremando per quella scena della scalata alla parete rocciosa; era in cima ad attendere l’eroe senza sapere dove fosse mentre improvvisava lanci nel vuoto e prese al limite dell’impossibile, appunto).
Dal quinto capitolo della saga è Christopher McQuarrie in sella alla regia e alla sceneggiatura. Se come sceneggiatore non si discute, come regista deve la carriera in pratica al solo sodalizio con Cruise (il quale è ormai dal 2005 che non lavora con registi di un certo calibro, ma quello è un altro discorso).
"Dead Reckoning - Part One" ha un merito (tenuto conto che le riprese sono iniziate a settembre 2020 e di conseguenza la sceneggiatura è di mesi o anni antecedente) ed è quello di essere profondamente attuale. Il nemico da combattere è un’entità informatica dotata di intelligenza artificiale, sfuggita ormai al controllo di chi l’ha ideata e messa in circolo. Una chiave cruciforme composita a due elementi è lo strumento con cui è possibile riprenderne le redini, domarla e impiegarla per i propri fini, nobili o meno.
Il cinema ha la capacità di affrontare e trattare verità con il complesso sistema della messa in scena, eventi e personaggi fittizi impiegati per analizzare complesse realtà, conosciute o meno, che agli occhi di uno sguardo superficiale sembrano pure fantasie, ma che a posteriori emerge come visione lungimirante, nei fatti precursore dei tempi.
E oggi nel 2024 il tema dell’IA è quello dominante, suscita speranze e timori, entusiasma e disorienta. Il quesito posto dal film in questione è il medesimo di quello che si pone oggi l’umanità intera: chi deterrà il controllo di tale enorme potere?
Le potenzialità dell’intelligenza artificiale non hanno pressoché confini; può determinare in meglio o in peggio il futuro dell’umanità in ogni ambito.
La sezione dell’IMF dei servizi segreti statunitensi, riceve il compito di recuperare la chiave, e Ethan Hunt (come al solito) va oltre, capisce che un tale potere va solo soppresso.
La sceneggiatura contrappone analogico vs. digitale, umano (Hunt) vs. artificiale (entità). È emblematica, a tal proposito, la sequenza nel commissariato di Roma: l’entità, tramite il suo portavoce, svela all’ignaro commissario tutta la sua vita manifesta e camuffata; una conoscenza frutto dell’immenso bagaglio di dati presenti sui server mondiali (social network, contenuti mail, file secretati). Fa subito da contraltare la performance di Ethan Hunt: svela, alla ladra in possesso di metà della chiave, tutti i suoi sotterfugi; ma in questo caso è la mente umana protagonista, con deduzioni logiche frutto di tutte le esperienze passate. La definizione che un agente CIA (messo alle sue calcagna) dà di Hunt è altrettanto emblematica: “È un mentalista, mutaforma, maestro del caos.” La stessa definizione ben si addice all’entità, digitale ma incontrollabile, con un codice sorgente originario ma ormai pressoché autonoma, senziente.
La sceneggiatura appunto, è croce e delizia di questa pellicola; l’enorme potenziale premonitore sui tempi, viene sgualcito da una pochezza di idee e contenuti che non trova pari in tutta la saga. La storia porta purtroppo la firma di una penna stanca.
Si corre sui tetti dell’aeroporto, si corre su un cavallo nel deserto, si corre per le strade di Roma, si corre con un motocross sui monti per poi finire a correre su di un treno.
Certo vi è spettacolarità, ma è più uno specchietto per le allodole, forse tanto fumo per annebbiare la mancanza di un buon arrosto. E un fumo costosissimo: 290 mln di dollari di budget più tutti i costi accessori (tra i film più costosi di sempre) per un incasso al botteghino che ha dovuto usufruire di un'assicurazione stipulata in anticipo per portare i conti in pareggio.
Sarebbe bastata qualche buona idea in sede di scrittura in più e qualche vagone lanciato nel vuoto in meno (treno vero, costruito e distrutto realmente).
Altro fumo, che al sottoscritto è subito sembrato per sopperire alla forte carenza di sceneggiatura, è tutta la carne al fuoco (beh, sembra quasi un ossimoro) per il cast: il più corale della saga che, oltre ai fedelissimi Ving Rhames (l’unico in tutti e 7 gli episodi) e Simon Pegg, vede il ritorno dello storico Kittridge (Henry Czerny), la sacrificata (in tutti i sensi) Rebecca Ferguson, l’enigmatica ma un po’ stucchevole Vanessa Kirby, e le new entry: Hayley Atwell (discutibile, ne è venuto fuori un personaggio troppo fuori contesto, quasi buttata lì a caso), Pom Klementieff ed Esai Morales (oltre a caratteristi sparsi qua e la).
E poi il nostro protagonista: da elemento rassicurante, sdrammatizzante, attraente e affascinante, col fare giocoso e dal sorriso sornione, qui lo ritroviamo cupo, compassato, imbolsito, impacciato e a tratti è evidente come sia il primo a non credere alla credibilità (scusate il gioco) della messa in scena. . .è palese come gli si legga in faccia quanto il tutto sia scritto male e reso in scena ancora peggio (le scorazzate in 500 a Roma. . .non se po' vedé).
Altro aspetto è l'eccessivo autocitazionismo, quando ha poco da dire un film parla molto a se stesso. Oltre al già citato reintegro di Kittridge, potrei citare il gioco di prestigio nel far sparire la chiave (nel primo episodio era un floppy disc), i rimandi nei dialoghi a Max, la madre della vedova bianca, e tanti altri cenni di autoreferenza che non aggiungono nulla ma sviliscono il contenuto.
Stucchevole inoltre il concetto introdotto sulla "decisione" che ogni membro ha preso al momento di entrare a far parte dell'IMF (con tanto di lezioncina alla novizia).
Un ultimo appunto sulla colonna sonora, sembra anche lei rassegnata e pateticamente ripetitiva nel ripresentare il main theme della saga per vivacizzare ed enfatizzare momenti che di vivace ed enfasi hanno ben poco (una retromarcia di una 500 che si infila in un tunnel?!). A parte il main theme, altra traccia di musica praticamente zero.
Non credo di essere stato eccessivamente critico, perché chi scrive segue e ama la serie dal 1996, da Brian De Palma a John Woo, da J. J. Abrams a Brad Bird a cavallo della regia.
Il mio rimarcare gli aspetti carenti e negativi tengono conto di cosa ha alle spalle questo settimo episodio: alla sua data di uscita una saga che dura da 26 anni, un marchio consolidato e iconico a livello mondiale grazie alla qualità espressa e alle sue specifiche peculiarità. Questo primo epilogo non fa onore al passato del franchise e del suo protagonista. . .tanto è che la Paramount, Skydance e TC productions sembra abbiano già tolto il suffisso “Part One” al caro “Dead Reckoning”, e che il seguito avrà un titolo a se stante, un po’ per slegarlo dal precedente, come a dire: “dietrofront, col precedente non c'entra nulla”. (Se venisse confermata, non è cosa da poco).
Dunque forse non mi sono spinto oltre e non esagero neanche ad affermare che la prossima mission (im)possible è restaurare il mito di MISSION IMPOSSIBLE.
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