Regia di Damien Chazelle vedi scheda film
"Babilonia, perla dei regni,
splendore orgoglioso dei Caldei,
sarà sconvolta da Dio come Sòdoma e Gomorra.
Non sarà abitata mai più né popolata di generazione in generazione."
(Isaia, 13,19)
Babilonia fu per anni prigione del popolo ebraico prima che Dio liberasse il suo popolo contrito e distruggesse il regno di Nabucodonosor. Ne profetizzò la distribuzione Geremia
"Quando saranno compiuti i settanta anni, punirò per i loro delitti il re di Babilonia e quel popolo - oracolo del Signore -, punirò il paese dei Caldei e lo ridurrò a una desolazione perenne."
Prima ancora dei profeti fu il libro della Genesi a raccontare il mito della torre di Babele allo scopo di ammonire l'umanità colpevole della confusione delle lingue e della dispersione dei popoli. Davanti al narratore l'immagine di Babilonia, dei giardini pensili e degli altissimi ziqqurat che sfidavano il cielo e la gravità. Lo splendore delle sue costruzioni, il potere politico che essa rappresentava, l'opulenza e la povertà ne fecero emblema di perdizione e capriccio. Nei secoli Babilonia divenne metafora della dissolutezza, etichetta che facilmente si potè appiccicare all'industria del cinema. Hollywoodland non poteva dribblare un simile paragone. Capitale dell'eccesso, fin dalla sua fondazione, industria del sogno, monumento del capitale e dello sfarzo. Così appariva ai suoi contemporanei. Per questo motivo, dalle maestranze agli artisti, erano per lo più stranieri e minoranze a far parte di quel mondo scostumato e privo di moralità. Le persone dabbene godevano, nell'ombra, dei divertimenti del carrozzone rimanendone sostanzialmente lontane per salvaguardare le apparenze. Hollywoodland divenne, perciò, circo di ebrei, negri, immigrati, donne, freaks e morti di fame che non avevano altra scelta. Indigenza o dannazione.
Si dice che Babilonia perì sotto il flagello divino rendendo storia gli avvertimenti dei profeti. Fortunatamente la fabbrica dei sogni è ancora al suo posto. Strada facendo ha perso dei pezzi ed ha accorciato il profilo sulla collina, pronta a raccontare nuove storie e a creare nuove disperate illusioni.
"Babylon" racconta la Hollywood peccaminosa ai tempi del jazz quando il muto stava passando il testimone al sonoro, il cinema era un'industria agli albori ed il divertimento offerto uno spettacolino spesso volgare.
Damian Chazalle ricostruisce le origini del mito, i grandi cambiamenti, il backstage delle piccole e grandi produzioni dal 1926 fino ai primi anni Trenta. I protagonisti del film fanno parte della cerchia dei dannati: un famoso attore del muto venuto dal basso, una volgare e squattrinata attricetta di periferia, un musicista di colore, una soubrette asiatica cinica e sin troppo disinvolta. Personaggi simbolici in una fabbrica che glorificava chiunque fosse pronto a tutto pur di lasciare la propria misera esistenza. Se era difficile arrivare ben più duro era rimanere in equilibrio sul piedistallo della celebrità. Lo star system era volubile e spesso repentino nel voltar pagina alla prima occasione propizia.
Il ritratto di Hollywood non è più quello dolce e malinconico di "La La Land". Non è più il resoconto privato della storia d'amore tra due anime che sacrificano alla carriera il loro sentimento. "Babylon" è il racconto disilluso di un figlio che ha visto oltre la fanciullesca aurea di infallibilità le debolezze dei propri genitori.
Il regista opta per l'eccesso per raccontare la gaia dissolutezza dell'arte. La prima parte del film è a dir poco scoppiettante. Uno spaventatissimo elefante dev'essere trasportato nella villa di un magnate. È l'attrazione della festa ma saranno montagne di cocaina, sesso, fiumi di alcool e un'orchestra di neri a tenere banco. La musica ritmata e tamburellante di Justin Hurwitz penetra nelle immagini sontuose e volgari di Chazalle in un orgasmo delirante di situazioni spinte all'estremo. Una sbornia di colori e note da somatizzare al più presto. Il giorno successivo si deve girare. I set della Kinoscope Studios brulicano di parassiti che chiedono condizioni di lavoro più umane. Impossibili da accontentare perché il divo Jack Conrad (Brad Pitt) beve troppo e desidera troppo. Il messicano Manuel Torres (Diego Calva) gli sta addosso per sistemare ogni problema mentre la giovane Nellie LaRoy (Margot Robbie), nella parte di una sbandata, recita se stessa. Ad Hollywood si può sognare, basta una cinepresa, un'ambulanza ed un magnifico tramonto davanti al quale un cavaliere ubriaco possa baciare la dama in attesa di liberazione. Chazalle giunge all'apoteosi tra lacrime ripetute e la baraonda delle riprese nel deserto californiano. Raggiunge un risultato altrettanto convincente nei sette ciak che dovrebbero sospingere sulla "vetta della Paramount' la fama di Nellie LaRoy. Amarezza, delirio, pungente ironia e un uomo che stramazza nella torrida aria di uno studio ovattato dicono il contrario. Calano le azioni di Conrad e LaRoy, salgono quelle di Torres e del jazzista Sid Palmer (Jovan Avevo) ma la sorte è maligna quando bussa alla porta. Più velenosa di un serpente a sonagli o della novella e bigotta morale americana, figlia della depressione, essa reclama l'neluttabile avvicendamento. I negri devono essere negri e non caffellatte e le donne devono declamare virtù fin troppo dimenticate. La seconda parte perde un po' di giri. Chazalle rallenta ed il film, fin lì al cardiopalma, sembra allungarsi un po' troppo. L'inevitabile è dietro l'angolo ma abbiamo tempo ancora per un bunker dove confinare le più aberranti nefandezze. La sequenza non ha più lo stesso mordente iniziale ma è abbastanza ripugnante da rimanere negli occhi. Mentre le musiche di Hurwitz citano se stesse e il romanticismo di "La La Land" il jazz di Palmer diventa più dolente e rabbioso. Ora ai negri tocca suonare per i negri. I divi del muto sono messi in naftalina in attesa che il destino se li porti via evitando loro il pubblico ludibrio di una fragorosa risata. Chi lascia Hollywood si salva ma forse anche lì è solo questione di fortuna.
Nel 1952 Torres ripercorre la propria vita in un cinema di Los Angeles. La pioggia lava via le lacime. La vita della sua amata e del suo capo sono troppp simili a quelle dei loro personaggi. L'amore per il cinema riga le guance di Manny e forse quelle di Chazalle dietro la cinepresa. A me non piace tantissimo questo frenetico susseguirsi di immagini che raccontano la storia della settima arte dai fratelli Lumière ad Avatar di Cameron. Mi prende allo stomaco, invece, un poster di Marylin anche lei bruciata dal divismo eccessivo che proietta in alto la luce intensa delle sue stelle prima di spegnerne l'interruttore con un click.
"Babylon" non è perfetto ma ha fascino da vendere. Le gambe di Margot Robbie, donna poco adatta all'estetica degli anni 20, mozzano il fiato e causano vistosi imbarazzi, lo strumento di Sid Palmer schiavizza le orecchie e un conato di vomito attacca il bon ton hollywoodiano dei nostri malaugurati tempi.
Vorrei essere in quella villa, possibilmente lontano dal culo dell'elefante ma anche in una sala in compagnia di Gen Kelly per danzare con un ombrello colorato tra le mani.
C'è poco da dire. Bravo Chazelle e che Dio risparmi Babilonia.
Charlie Chaplin Cinemas - Arzignano (VI)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta