Regia di Tony Palmer vedi scheda film
Che periodo la fine degli anni sessanta, in All my loving ce ne arrivano frammenti, di voci parlate, di musicisti e personaggi vari che ne fecero parte. Paul McCartney, Jimi Hendrix, Pete Townshend, Donovan, Frank Zappa, Eric Burdon. Tutti ancora molto giovani, che manifestano il loro pensiero, dissacrante, utopico, analitico, psichedelico. Parti di un patchwork creativo che in quegli anni nel campo della musica rock e pop raggiunse forse il suo apice assoluto, grazie anche alle sperimentazioni in studio che le nuove tecnologie elettroniche avevano portato. Il documentario raccoglie questi frammenti e li amalgama in una fluida pastosità acida, con improvvise accelerazioni del ritmo e immagini che rischiano di impazzire in una eiaculazione di suoni e colori. A tratti straniante il trattamento del sonoro, con canzoni il cui volume viene abbassato fino a renderle quasi irriconoscibili o con le parti vocali messe in risalto, con toni saturi e profondi, così decontestualizzate dalla loro immediata riconoscibilità come fossero un oggetto allucinatorio. Poi brevi spezzoni di performance estatiche (Cream, Pink Floyd) o di inaudita violenza espressiva (The Who) o pregne di una carica sessuale incendiaria (Jimi Hendrix). Sullo sfondo la società inglese dell’epoca in cui l’impatto della cultura giovanile di quegli anni fu assolutamente strabiliante, prima che tutto si convertisse in commercio e che l’Lsd perdesse la sua carica rivoluzionaria. In un certo senso per un breve scorcio di tempo si era alzata un’onda luminosa di nuova energia (ne scriveva il Dottor Gonzo in una stanza semidistrutta di Las Vegas), incanalata nella musica per essere espressa, in una comunione di intenti e promesse e sogni e infinite possibilità di esistenze alternative. Accanto a questo l’orrore che mai va dimenticato. Esecuzioni di vietcong, i corpi delle vittime dei campi di sterminio, la voce di Hitler che farnetica chissà che cosa in tedesco. La musica è stata veramente un’esperienza comunitaria e catartica attraverso concerti e gruppi che si formavano in continuazione. Poi la parcellizzazione dell’esperienza, i dischi, i vinili, il mercato che come sempre sa dove affondare i propri denti e cibarsi di tutto. Almeno in queste immagini, il documentario è del ‘68, rimane un affresco confuso di ciò che è stato. E di tutto quello che sarebbe potuto essere se quell’onda da qualche parte non si fosse infranta per non tornare mai più.
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