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Deus tem AIDS

Regia di Fábio Leal, Gustavo Vinagre vedi scheda film

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La recensione su Deus tem AIDS

di EightAndHalf
6 stelle

Pur nella classicità dello schema documentario-per-interviste, il regista brasiliano Gustavo Vinagre riesce sempre a suggerire le sue disperate e sessuomani gerarchie dell’immagine. La sessualità di Vinagre è pungente e respingente anche quando cerca l’empatia e la tenerezza, perché non vuole nascondere le storture delle nostre gerarchie morali, e anzi vuole stuzzicarle e riscriverle. Ogni persona ritratta è un personaggio di cui viene restituita non solo la personalità e la storia, ma anche l’immanente presenza sulla Terra: non è un caso che quasi tutti si impegnino, durante il film, in performance e attività artistiche di vario genere, in cui l’urgenza di un loro posto nel mondo viene a galla come un urlo o una cruda recriminazione. Le interviste di Vinagre, che riconosceresti da lontano per come si soffermano, con estrema gratuità, sull’atto stesso del filmare, sulla presenza dell’intervistatore, sulla forma di una stanza, sono talmente “vere” da permettersi di interrompersi, di adocchiare la possibilità di una natura morta, di non escludere dal montaggio finale una panoramica a seguire un personaggio che recupera un libro da uno zaino fuoricampo, a costo di incrociare gli occhi di una microfonista. È quel tipo di poesia “del dettaglio” e delle piccole cose che a rendere stucchevole ci vuole molto poco, ma che in Vinagre concede brevissime catarsi e purificazioni, fino a sfiorare gli abissi dell’osceno. 

Cos’è l’AIDS e come si rappresenta? Cosa vuole dire “essere malati” nelle narrazioni inclusive delle minoranze e delle diversità? Oggi l’AIDS c’è ancora e ancora di più di ieri se oggi si sopravvive e ci si convive. Gli untori – come racconta l’attivista ambulante che invita a dialogare di HIV con la gente di passaggio – non sono neanche più tali, perché se la terapia va bene smettono pure di essere contagiosi. E allora come privarsi dello stigma? Normalizzandosi o affermando le proprie specificità? La performance di uno dei protagonisti del film, che mette insieme – e in primo piano – ano, sangue, siringhe e pugnali, è una palese sfida alla sopportazione dello spettatore, così come a quella degli spettatori presenti fisicamente alla performance, forse ancor di più per lo spettatore al cinema che potrebbe al massimo uscire dalla sala, ancora più sadicamente sottoposto al torbido occhio di Vinagre. Eppure è un osceno di livello ulteriore, ancora più proibito, che possa smuovere senza psicologismi.

Altrove nel film, in questa summa imprevedibile dell’arte-AIDS,Vinagre concede molto anche a forme più leggere e allusive, mai concilianti: dall’attivista suddetto alla performer di colore che gira con un segnale luminoso che dice “Sieropositiva”, fino all’happener nudo sui tetti e alla poesia e al cinema, ad essere sollecitata nel nuovissimo documentario di Gustavo Vinagre (qui insieme a Fabio Leal, già regista del corto Reforma) è la struttura stessa dell’arte cosiddetta “inclusiva”, che non ha una sola natura e che è molteplice specchio della molteplice natura degli esseri umani. Un atto di forza, anche solo constatare di esserci.

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