Regia di Scott Derrickson vedi scheda film
Successo al box office, calcolato e pianificato a livello industriale, dal sempre più scaltro, e ricco, imprenditore (ormai si fatica a chiamarlo produttore) di nome Jason Blum. Un tipo di cinema che centra l'obiettivo del finanziatore, affascinando un numeroso pubblico di teenagers, convinto di assistere a un film horror.
Fine anni Settanta, Denver. Finney (Mason Thames) e Gwendalina (Madeleine McGraw), fratello e sorella in età adolescente, vivono con un padre alcolizzato e violento, mentre nei paraggi un serial killer, denominato dalla cronaca "il rapace", sequestra e uccide i loro compagni di scuola. Un giorno Finney finisce "preda" del maniaco, uno squilibrato che indossando una maschera diabolica, tiene prigioniero in un seminterrato il ragazzino. Nel tetro ambiente che ospita Finney è presente un telefono disattivato, che stranamente inizia a squillare. Quando Finney risponde, entra in contatto con gli spettri dei precedenti bambini, rapiti, torturati e uccisi dal folle maniaco. Durante la lunga prigionia del fratello, Gwen continua ad avere visioni che potrebbero contribuire a identificare il luogo in cui agisce l'assassino.
"Secondo me, non ci si può fidare di una che vuole sposare Fonzie."
(Gwen)
Jason Blum, inutile negarlo, è un uomo d'affari prima che un produttore. Uno che riesce, quasi sempre, a individuare il target giusto e ottenere un clamoroso successo al box office. Black phone non fa differenza: è interpretato da adolescenti, sfrutta i tòpoi più scontati del genere horror infantile, quelli che già negli anni Ottanta (più o meno il periodo nel quale il film è ambientato) erano alla base di pellicole con celebrati "mostri" dell'orrore cinematografico: Freddy Krueger, qui evocato dai sogni che sembrano interagire con la realtà (esperiti da Gwen); Michael Myers (una entità impersonale, mascherata, simbolo del male puro, fine a se stesso, del quale "Il rapace" ne è in parte copia); la figura del clown resa macabra da It. Con aggiunta di elementi sovrannaturali tipici del filone orientale (The call) e qualche spunto oltretombale, non troppo spaventoso, che ricorda - nelle apparizioni cadaveriche delle cinque piccole vittime - il povero Jack presente in Un lupo mannaro americano a Londra. Non importa che ne esca un film opportunamente ammorbidito, con taglio sgodevolmente moralistico, ipocrita, addirittura retrodatabile a una concezione da censura anni Cinquanta; un film ripetitivo nello stagnante inviluppo centrale, quasi vuoto di contenuti. Non importa che sia lungo, prevedibile e brutto per lo spettatore non più ventenne, perché Black phone ha saputo comunque raggiungere l'obiettivo: a fronte di un budget pari a 18.000.000 di dollari, in pochi mesi ha quasi decuplicato le spese (ad oggi ha raggiunto la ragguardevole cifra di 142.000.000). Tutto quel che ne consegue è che un regista di classe come Scott Derrickson (The exorcism of Emily Rose è ormai un lontano ricordo), si adegua, per opportuna convenienza, finendo per stare alle regole di casa Blumhouse, una fabbrica cinematografica che stampa thriller e horror inefficaci a ritmo sostenuto, basandosi su proiezioni test e sui gusti di quella fascia di pubblico (14-18 anni) che prova un timido brivido guardando lungometraggi tipo questo, inclassificabili in un genere, destinati a finire in un immenso contenitore di audiovisivi come vuoto a perdere. Dimenticati, nella storia del cinema, pochi mesi dopo il preannunciato exploit iniziale.
Il lato più inquietante di un'opera come questa, che mai verrà raccolto dai giovani spettatori, sta nell'implicito riferimento a figure realmente esistite: Ted Bundy, John Wayne Gacy e Jeffrey Dahmer. E viene la pelle d'oca pensare che qualcuno, speculando in maniera subliminale sul reale dolore delle vittime di questa disgustosa terna di serial killer, venga premiato al botteghino. Derrickson ha ormai da tempo abbandonato le aspirazioni artistiche (tipiche dei suoi primi, più economici, ma molto migliori lavori), finendo per sottostare alle regole del commercio e del monopolio settoriale della Blumhouse. Ci troviamo di fronte a un finto-horror "capitalista" (ovviamente, quindi, ben girato e recitato) destinato a un pubblico naturalmente ingenuo, data la bellissima età, convinto di assistere a uno spettacolo estremo, che magari ancora si spaventa per una maschera di carnevale (triste opera di un ex-genio come Tom Savini), talmente puerile che meriterebbe di essere parodiata, almeno nella sua versione da spot per dentifricio (quella con i dentoni in mostra), in un necessario aggiornamento post-millennio del cult Scary movie. Di materiale per far sorridere il pubblico, in questi ultimi vent'anni, il cinema horror ne ha prodotto in quantità industriale. Blande, quasi patetiche, le citazioni esplicite (tanto per cambiare, si nomina Non aprite quella porta) e quelle visuali (Finney guarda in TV The tingler).
Curiosità
La sceneggiatura di Black phone è basata su un romanzo omonimo scritto - come se non bastassero le tante pellicole di scarso risultato artistico ispirate dai racconti del padre (Stephen King) - da Joe Hill. In precedenza, altri due suoi racconti sono stati alla base dei flop cinematografici Nell'erba alta e Horns.
"Telefono (s.m.). Infernale invenzione che elimina purtroppo parte dei vantaggi inerenti alla saggia abitudine di tenere a distanza le persone sgradevoli."
(Ambrose Bierce)
Trailer
F.P. 04/08/2022 - Versione visionata in lingua italiana (durata: 103'22")
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