Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Il titolo, prima di tutto
La gestazione dell'opera è nota; il regista riminese da anni pensava ad un film sull'avventuriero veneziano, sebbene non conoscesse minimamente la fonte documentaria prima e cioè la biografia scritta da Casanova sé medesimo. Forse fu proprio questo a convincerlo, almeno all'inizio: una ghiotta occasione di creazione immaginifica tanto più libera in quanto lontana nel tempo e di scarsa rilevanza letteraria.
Firmato però il contratto (dirà "a cuor leggero") ed incontrato il testo, la faccenda si complicò: Fellini non sopportava la scrittura ed il suo autore. "Histoire de ma vie" era solo una sequela di noiosi aneddoti meticolosamente descritti di una vacuità disarmante. Profondamente inutile ed irritante. Persino la semplice scansione temporale, incerta. Nessun filo conduttore. Né un "senso" diverso o altro se non l'illuminazione estemporanea di centinaia di "quadretti" sconnessi. Ne veniva fuori l'immagine di una esistenza mal-spesa, di un uomo borioso (che tra l'altro scrisse in francese per essere certo del successo della propria opera. Opera che risultò invece per anni impubblicabile e quando lo fu, alfine, i rimaneggiamenti altrui furono pesantissimi) sciocco e reazionario. Di un autore "d'occasione" che produsse letterariamente solo per ottenere un qualche beneficio fosse anche la semplice promozione di sé.
Invece che desistere, come forse la ragione avrebbe richiesto, Fellini tenne in piedi il progetto "per un motivo puntiglioso e isterico" che portò il co-sceneggiatore Zapponi a dichiarare, tra l'altro, che "lo scontro Fellini-Casanova fu uno dei più cruenti e dolorosi di tutta la storia del cinema" (3). Questo, insieme a ritardi, posticipi, cambi di produzione, rinunce, persino furti, altalenanti litigi sulla scelta del protagonista e sulla lingua in cui girare, lievitazione esponenziale dei costi, rese la gestazione del film (ma persino le riprese) uno strazio.
Alla fine, il 10 dicembre del 1976, "Il Casanova di Federico Fellini" uscì nelle sale di Roma e Milano. L'accoglienza fu tiepida: non era affatto quello che il grande pubblico si sarebbe aspettato. Per gli addetti ai lavori, per chi conosceva Fellini, invece, forse sì: il disinteresse per la "veridicità storica" parallelo alla mancata aderenza alla fonte letteraria. Di certo Fellini rifiutava ogni approccio filologico parlando secco del presente. Piaccia o no, esso è, più che mai, un film tutto e solo del regista riminese (Zapponi, come mai avrebbe potuto essere Flaiano, al servizio del maestro). Summa di pensieri, sensazioni, incubi, ricordi, speranze angosciose, allucinazioni, riflessioni tanto privati quanto universali.
"Il Casanova di Federico Fellini" ovvero una dichiarazione di intenti, ante incipio, nei titoli di testa: “liberamente ispirato a Storia della mia vita di Giacomo Casanova”.
Perché Casanova
L'antipatia del regista verso il proprio personaggio era ostinata. Tanto da indirizzare la stesura della sceneggiatura dalla quale vennero minimizzati ed epurati i pochi episodi “edificanti” della vita di Casanova (gli incontri con personaggi di rilievo come Voltaire per esempio, la fuga dai Piombi) per privilegiare l'aspetto privato ed inutilmente accumulativo della stessa. L'idea era appunto di creare dei “quadri” che gettassero luce su “momenti” spaiati nei quali non si riuscisse mai a riscontrare un “senso profondo e complesso. Era la mancanza totale di un qualsivoglia “progetto” sulla propria esistenza che sembrava irritare tanto Fellini a riguardo dell'avventuriero veneziano. In fondo, il fatto che quest'ultimo non avesse mai sul serio “scelto” di fare o essere, lasciandosi invece trascinare dagli eventi e dalle casualità.
Eppure, nel sottofondo dell'opera, si insinuò un valore aggiuntivo: “Non escludo che Fellini riesca addirittura a celare se stesso nel suo personaggio. Quindi questo odio apparente può nascondere, sotto sotto, un vero amore. Perché quando un artista del livello di Fellini sceglie un tema come Casanova, intende andare verso uno scontro frontale col personaggio. E questi scontri frontali senza un certo amore non sono possibili”(1).
Il film, nato come sogno, proseguito come incubo, si avviava ad essere capolavoro, nella misura in cui, abbandonate le vesti storiche e i personaggi di costume, si metteva a parlare (quasi da solo!) dell' adesso e di tutto: “Casanova è quello che è però … E Fellini ammette che ha finito per affezionarsi al cavallòn autore di quel libraccio...testimoni degni di fede hanno visto spuntare una lacrima sul ciglio del regista al momento del congedo. Federico, sul punto di staccarsi … era già pieno di nostalgia e turbato dal sospetto di aver lavorato, senza rendersene conto, ad un sarcastico autoritratto in costume da gentiluomo del Settecento: il peggio di un maschio condizionato da un'educazione sbagliata quando mette piede sul pianeta donna.” (1)
Un Casanova un po' troppo Don Giovanni
L'approccio filologico non era di alcun interesse per Fellini. Nella delineazione del protagonista si accumularono dunque influenze culturali coeve al testo originale, ma anche successive. Imprescindibile il Don Giovanni mozartiano, e allo spettatore un po' smaliziato questo potrebbe apparire una ulteriore volontà di discredito, da parte del regista, nei confronti dell'autore de "Histoire de ma vie" . Con il sospetto che quest'ultimo avesse, nella biografia, accresciuto (o addirittura aggiunto di fantasia) di suo pugno meriti intellettuali, scientifici ed emotivi minimi se non inesistenti.
E' bene chiarire che, a differenza dell'avventuriero veneziano, Don Giovanni non è un personaggio storicamente attestato bensì un “topos” o una “leggenda” (4) di incerta genesi e dai tratti facilmente plasmabili. Ecco le caratteristiche salienti che Da Ponte fissa, nel libretto dell'opera: “il vitalismo: attira tutti gli altri personaggi, sia uomini che donne; anche quando lo odiano o lo negano, non fanno che pensare a lui, parlare di lui, agire per lui. L’inafferrabilità: mentre gli altri personaggi sono delineati in modo realistico e credibile, Don Giovanni non si lascia definire, è sfuggente... La solitudine: nella sua delirante compulsione psico-motoria, Don Giovanni sembra volersi auto-distruggere. L’invito al godimento forse ha origine dal tedium vitae e dal vuoto interiore. L’incoscienza: a Don Giovanni manca la coscienza; è indifferente al dolore altrui e anche alla manifestazione del soprannaturale.” (5).
Il Casanova di Federico Fellini parve essere dunque una macabra e ridicola commistione del peggio dei due. Se il cittadino della Serenissima si auto-attribuiva una magnifica galanteria (amor proprio che lo spingeva paradossalmente ad abbandonare con gentilezza, a tradire con rispetto, a farsi maledire e rimpiangere insieme) questa scomparve dal lavoro cinematografico focalizzato sulla figura del cavaliere licenzioso invece: senza consapevolezza di sé, senza coraggio, senza finalità se non la dimostrazione di un supposto godimento dell'immediato, arrogante e presuntuoso, indifferente ed annoiato, falsamente esteta. Un inaffettivo Don Giovanni, appunto, che “amava” una per una, ma per cui nessuna era, e mai sarebbe stata, unica.
La conquista della donna non era animata dall'amore ma dalla contabilità: ogni donna allungava orizzontalmente la lista delle sue imprese ma non era mai La Donna. In questo movimento perpetuo, il desiderio restava pertanto l'espressione di una coscienza infelice: e l'ombra era quella di chi ancora non si possedeva (il futuro di cui si dirà sotto). “Amare” davvero una sola sarebbe stato come tradirle tutte. Niente grazia, nessun rimpianto: “ L'amore di un libertino fa molto in fretta a raffreddarsi se non viene opportunamente nutrito e le donne un po' sperimentate lo sanno” (7).
Questa strenua volontà di volgere il proprio sguardo solo al futuro non solo azzerava e mortificava il passato ma non permetteva al Casanova felliniano nemmeno di assaporare il presente. La sua una erezione costante ma senza orgasmo, una eiaculazione senza piacere. Lontanissimo il seduttore di Kirkegaard: rappresentante di una deontologia della sfera estetica senza l'ingombro della riflessione, dello spirito, della coscienza. Al protagonista, una volta annullata l'angoscia del peccato, non rimaneva che il vuoto senza gioia, l'assenza di schiettezza e spontaneità. Dove la gloria della naturalità primordiale, la leggerezza, l'istintività, la forza straripante della sensualità feconda? Da nessuna parte: ogni donna era in fondo uguale alla precedente, e sarebbe stata uguale alla successiva. Casanova non ne “scelse” coscientemente neppure una: tutte furono occasioni.
Egli non fu perciò un seduttore: Heriette la conobbe incrociando il conte ungherese, Isabella nello studio del padre, la monaca proponendosi a lui come attrice di uno spettacolino per occhi terzi etc. Tutte disponibili ed inseguitrici. “Gli avvenimenti più importanti della nostra vita sono indipendenti dalla nostra volontà. Siamo solo atomi pensanti che vanno dove li spinge il vento.” (7). Non fu di sicuro nemmeno un sedotto, non comprendendo differenze e peculiarità. Casanova “usava” dongiovannescamente con noncuranza (come nella gara romana, sottoponendo la fanciulla ad una violenza, in pratica) ma nello stesso tempo non si impegnava neppure in uno sforzo di malvagità: si rifiutava soltanto di dire di no.
Se il personaggio mozartiano era un libertino tout-court anche nello spirito, un rivoluzionario, un impenitente, un polemico, con il carico morale della amoralità, Casanova venne da Fellini rimpicciolito a borghesuccio senza arti (se non quelle amatorie), reazionario e persino un po' bigotto. Un vanesio senza progetto, nemmeno il più scellerato. Sulla soglia della maturità, senza stimoli e senza idee, accarezzando persino l'idea strampalata di una vita diversa: “Isabella ha il volto severo di Atena...la dea della ragione e delle arti, la femminilità maestosa e che unisce sapere penetrativo, ingegno e forza guerriera. E la sagace Isabella gli risponde con l'affettuosa e paziente comprensione che si ha per un bambino: Che uomo strano sei tu Iacomo. Non può parlare d'amore senza immagini funebri? La più dolce delle morti, ti vuoi annullare in amore. Forse che più di amare tu desideri morire? Il più tardi possibile, mia incantevole Isabella. E quando verrà quel momento....vorrei poter stringere la vostra mano. La lucida Isabella questa volta in effetti si è sbagliata. Giacomo non cerca la morte. La sua sete di vivere ricorre alla simbologia mortuaria solo perché essa assimila il bisogno di eternarsi. Ciò che per ora Giacomo vuole soprattutto arrestare è piuttosto la sua vita girovaga, far addormentare quel commediante e saltimbanco del sesso che è in lui,...Finalmente capisco . Il male misterioso che mi ha colpito in questa casa ha portato in me la luce. Voglio una vita diversa serena nella quiete del mio studio , rinunciare all'inutile noiosa libertà, e per sempre da voi essere amorevolmente guidato. Oh ditemi di sì Isabella, mia illuminata salvatrice!” (6). Qualche sagace spettatore potrebbe osservare che è sempre bene diffidare di chi chiedesse di essere salvato! In genere è sempre l'ultimo ad essere dannato. Bene diffidare di chi volesse buttarsi nelle acque gelide del Tamigi: prima di farlo, ci fa cadere l'interna umanità! Così dunque Casanova il quale, sulle prime disperatissimo per il mancato arrivo della fanciulla all'appuntamento convenuto alla locanda, riuscì a riprendersi dalla delusione nell'arco di pochi minuti, tuffandosi quanto più convintamente nella vacuità e nella noia in questo caso specifico ristrette nella scatola sospesa di una laida orgia.
Il suo unico e vero amore? Un' incontro fugace e perfetto: una bambola, senza parola, senza cervello, senza cuore e con un corpo tanto accogliente quanto non “collaborativo”. Nella vertigine del proprio egocentrismo, certo di non tradire nessuna e libero da ogni aspettativa di prestazione ginnica, Casanova provò anche lui, alla fine, quella ebbrezza totalizzante ed immediata che si potrebbe chiamare amore. Se amore è amore per sé e riflesso del sé. Nel contatto plastificato con un essere meccanico: il piacere. L'apice di una vita malspesa e a venire, mal-ricordata. Fellini, sorprendentemente pietoso e quasi emozionato, costruì il suo finale onirico e magniloquente nel quale gli occhi del protagonista poterono alfine volgersi al passato in tutte le sue forme: femminili, molteplici, confuse le une nelle altre, uguali e diverse. Un passato dai contorni indefiniti, una negazione tragica di ogni futuro.
Vedi Venezia e poi muori. Un altro Settecento
La sceneggiatura dunque rispecchiava il carattere cumulativo del testo, sulla cui valenza letteraria effettiva ancora molto di dibatte (per molti critici opera “di costume”, piena di curiosità storiche ma di modestissimo peso scrittorio). Ad uno stile vagamente pomposo, ma nella sostanza semplice, Fellini oppose una messinscena dalla raffinatezza estetica sorprendente. Il suo Casanova fu lavoro intimamente visivo nella misura in cui la scenografia, più ancora della fotografia, partecipò all'espressione dell'essenza e nello stesso tempo visse di una vita a sé stante. Complesso il gioco fatto fra spazi pieni e vuoti: tanto più gli avvenimenti si accumulavano, tanto più gli ambienti si svuotavano. All'interno di architetture esagerate e ridondanti, senza preoccupazione alcuna di verosimiglianza. L'apoteosi del barocco nel secolo dei Lumi, lontanissimo dalla grazia e dalla luminosità del Rococò e declinato principalmente al passato remoto di un conservatorismo dove il principio è quello della meraviglia e dell'illusione onirica e il concetto di imitazione è già tutto di “finzione”.
Le musiche di Nino Rota aggiunsero a questa poetica un effetto straniante e spesso aspro e contrastante. Una vera e propria ricerca di irrealismo che si fece tanto più evidente nella rappresentazione di Venezia. Lontano l'idillio di serenità e perfezione del Canaletto con i suoi azzurri ideali e cristallini, così come lo spirito pre-romantico del Guardi. La città lagunare felliniana fu crepuscolare e notturna, sprofondata nel baratro della volgarità , costruita di sacchetti di plastica e monumenti di carta, sferzata dai venti e sommersa da una pioggia asciutta ma pungente. Barocca perché artificio puro, settecentesca perché vera in quanto fittizia: fondale di un teatro mobile: tra Dresda, Roma e l'isoletta di San Bartolomeo. Ma un teatro misero perché l'Europa tutta misera (nel 1976 come nel 2017). Introvabile la vertigine del cielo cristallino, vuoto eppure solido di tiepolesca memoria, la volta celeste inondata di una luna Veemeriana fuori dalla finestra di una casa svizzera, o da un sole malato nel gelo della infinita campagna mitteleuropea. Fellini combatté perché il film fosse girato tutto in interni ricostruiti negli studi di Cinecittà. Il risultato fu uno spettacolo quasi a sé stante: prevalsero atmosfere e luci scure, innaturali, che accentuarono l’effetto onirico e claustrofobico. Una Londra fumosa ed acquatica, Roma tutta stretta in una sfarzosa residenza nobiliare, Dresda di gusto viennese .
Questo Settecento non conobbe l'Illuminismo: saltando in toto la Rivoluzione approdò dritto al Terrore. Lo spettatore sente sul collo il fiato corto del Trattato di Campoformio: sarà qualche anno dopo, ma Venezia era già morta. E con essa, gli ideali strozzati nel sangue bonapartista. Inesistenti i salotti neoclassici inglesi che sfoceranno nel tranquillo e pulito Regency: il dominio commerciale delle Compagnie delle Indie e dei Lloyds. Fellini non anticipò neppure il respiro profondo di assoluto che di lì a poco sarebbe soffiato lieve ed impetuoso con lo Sturm und Drang: non c'è sublime. Non c'è Ragione. Solo un finale inglorioso di un barocco sotterraneo e sepolcrale. Senza più nulla da aggiungere se non un l' autocitarsi frenetico dove ogni inquadratura si fa strabilio: dal bordello in una scatola di legno alla villa veneziana dell'ambasciatore francese, al castello boemo. Il senso di abbandono aleggiante: ciò che si sta guardando non è altri che l'epopea di un anti-eroe inutile non sul viale del tramonto perché mai stato sul viale dell'alba, il quale avrebbe voluto modulare la vita a “opera d'arte” ma in verità visse solo un'epoca personale, atemporale: non ebbe gli strumenti per capire, non ebbe la forza per reagire. Tra le scene finali, quasi straziante la discesa dello scalone nella residenza di Dux: Casanova malandato ma vestito di gala, imparruccato ed incipriato declamando l’Ariosto in una compagnia di giovani abbigliati in modo sobrio e moderno, deriso e volgarmente sbeffeggiato. E' la fine, nella nostalgia onirica di un passato glaciale e sciocco.
Il mito della Mouna e la sterilità del sesso
“La grande Mouna” fu un momento creato appositamente da Fellini, distaccandosi del tutto dalla fonte scritta. L'unico lirico del film: il “cuore”, il ventre molle, personale e significante.
Sulle rive deserte del Tamigi, in un momento di solitudine e sconforto, Casanova inseguì una strana immagine muliebre addentrarsi nei meandri della città. Un'imbonitore da spettacolo di strada gridando: “The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina. Guardate, la sua bocca vi invita ad entrare. Avete paura? Chi non entra nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in fondo, nella pancia della Grande Mouna... La Mouna è una porta che conduce chissà dove, un muro che devi buttare giù. La Mouna è una ragnatela, un imbuto di seta, il cuore di tutti i fiori. La Mouna è una montagna bianca di zucchero, una foresta dove passano i lupi, è la carrozza che tira i cavalli. La Mouna è una balena vuota, piena d’aria nera e di lucciole, un forno che brucia tutto. La Mouna, quando è ora, è la faccia del Signore; è la sua bocca. E’ dalla Mouna che è venuto fuori il mondo con gli alberi, le nuvole, gli uomini; uno alla volta, di tutte le razze: dalla Mouna è venuta fuori anche la donna...Evviva la Mouna, la Mouna, la Mouna...”
Dentro la bocca della balena, Casanova si imbatté in un vecchio amico: “Egard! E’ strano incontrarti ora... Forse puoi aiutarmi, ascolta.” Ed Egard declama dei versi: “Quando sono ubriaco / non conosco nè cielo né terra; / io giaccio solo, immobile nel mio letto / finché alla fine io dimentico anche di esistere. / E in quel momento / sconfinata è la mia felicità. Lung-ho-tse, poeta cinese dell’Ottavo Secolo.” Casanova: “Tu viaggi in terre che non esistono, Egard.” Egard: “Oh, Giacomo... “Casanova: “Anch’io viaggio molto, ma nella realtà.” Egard: “Ma i tuoi viaggi attraverso il corpo delle donne dove ti portano? In nessun luogo...” Casanova: “Mi è accaduto uno stranissimo fatto. Nauseato dalla vita, volevo uccidermi; ero già immerso nelle acque fredde del fiume, recitando un sonetto del Tasso, quando ho visto passare una donna straordinaria, alta più di sette piedi. Ha destato la mia curiosità e ho cercato di seguirla, ma è sparita e non spero più di trovarla.” Egard: “Tu l’hai trovata, Giacomo: lei è qui.”
La Mouna (con o senza "u") rappresentò dunque la risalita nell’utero materno, il desiderio incestuoso della congiunzione primordiale con la donna più importante della vita perché colei che dà la vita: la madre. La gigantessa calda e accogliente: l'inquadratura sul viso contadino, solcato da calde lacrime , la bocca effondendo note antiche di una nenia e l'abbraccio metaforico ai due nani: figli o amanti. Quale stridore con la madre “reale” del protagonista. Egli la rincontrò, dopo anni di lontananza, nel teatro di Dresda. Riconosciuto ed apostrofato “cabalòn”, la approcciò con deferenza, cercando di ammaliarla con veri o fasulli successi come a volersi affrancare dalla propria immagine di figlio sbagliato. Magnificando i risultati ottenuti presso le corti di tutta Europa, Giacomo si dipinse come intellettuale e uomo di scienza. Quale l'atteggiamento della sua interlocutrice? Sprezzante e distaccato. “Ma quella donna è un fardello che schiaccia la testa, perché essa è anche la matrice simbolica di tutti i significanti dell'altro sesso. Anzi, in quella magistrale scena filmica, la madre, col suo abbigliamento, è soltanto un ammasso vaporoso di pure insegne femminili. Infatti, appena Casanova arriva in strada, dalla carrozza scendono due servitori che, senza il minimo sforzo, sollevano a braccia quella figuretta di donna, e la depongono delicatamente all'interno della vettura, che subito si allontana dentro il desolato chiarore della neve." (6) Un ghigno fremente di disprezzo chiuse il quadretto familiare ghiacciato.
La domanda a cui lo spettatore pare messo davanti è crudele ma necessaria: è amore (parola ampiamente usata dal protagonista: tanto che la sensazione è di un abuso o violenza) un sentimento che non sia in grado di generare bene? Amore senza bene: possibile? Dove il bene se l'intensità dell'emozione è, al suo apice attrazione totalizzante (come in fondo quella di Giacomo per la madre e così quella di Giacomo per le altre donne) a cui segue solo sofferenza estrema, senza gioia?
Questo mi conduce, gioco-forza, alle ultime osservazioni relativamente a questo film, che sono di natura strettamente personale. “Il Casanova di Federico Fellini” mi fu consigliato in un momento molto particolare della mia esistenza. Forse al picco della realizzazione (se non proprio accettazione) che molti dei miei desideri e programmi personali non si sarebbero mai, mai più concretizzati. Forse, in un istante di delusione e disillusione. La visione scatenò in me paure ataviche e angosce inespresse, tutte convogliate in un obbligato silenzio pubblico e fors'anche intimo. Per qualche motivo la mia mente contrappose il lavoro del regista riminese, così intriso di richiami (o se si vuole, di negazioni!) pittorici a “L'origine del mondo” olio su tela di Gustave Courbet, assai più sfrontato eppure meno drammatico, meno sconcio, meno disperato. Consolatorio? Quando invece Casanova cancella ogni possibilità di conforto e rassicurazione.
Ma forse, se l'origine del mondo è conosciuta, sconosciuto resta il suo percorso e le sue interazioni e misteriosa, sempre, la sua fine. Non è facile ammetterlo. Ma, appunto, crudele e necessario.
(1) “Federico Fellini: la vita ed i film” di Tullio Kezich
(2) “Tra musica cinema e poesia” di Andrea Zanzotto
(3) “Casanova” di Fabrizio Borin
(4) Enciclopedia italiana Treccani
(5) “Le metamorfosi di Don Giovanni” raitv di Giodo Davico Bonino
(6) “Analisi di una messa in scena. Freud e Lacan nel Casanova di Fellini” di Elio Benevelli
(7) “Storia della mia vita” di Giacomo Casanova
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