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Il Casanova di Federico Fellini

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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La recensione su Il Casanova di Federico Fellini

di LorCio
8 stelle

Quello di Fellini, sin dai tempi de Lo sceicco bianco, è anche un cinema delle macchine. Onirico, immaginifico, erotico, certo: ma che vive della centralità della macchina. Cinque esempi: una testa, un’orgia, una vagina, una bambola, un mare. L’imponente Venusia, il testone che emerge nell’ouverture sul Canal Grande, così grande e misteriosa da non necessitare nemmeno del corpo che sottosta ai suoi occhi da cartoon, che appare per una manciata di secondi nella bolgia carnascialesca e poi affonda dolcemente. Il Casanova, d’altronde, può essere tutto racchiuso nel gran Carnevale iniziale: parafrasando Bachtin, è un film in continuo oscillare tra morte e rigenerazione, votato al grottesco qui incarnato dal sesso massimamente simbolico. Sesso, ovviamente centrale, che raggiunge il culmine “concreto” all’interno della macchina a rotelle di legno in cui il protagonista e tre donne si concedono una forsennata orgia. Ed è un’orgia perlomeno estetica la sequenza della mona, altra macchina con evocazioni ludiche (le giostre dette anche calci in culo), immagini deformi (i peli pubici) ed afflati poetici (l’apporto di Andrea Zanzotto).

 

E l’inquietudine assoluta della donna-macchina: proiezione dell’uomo Casanova dedito alla vanità sessuale alla stregua d’una macchina oppure apoteosi della misoginia mascherata da celebrazione del femmineo qualunque sia la sua espressione o viceversa oppure ancora matrimonio tra istinto umano e raziocinio meccanico; o invece, e questa potrebbe essere definitiva, riflessione spettrale del personaggio-Casanova che è maschera carnevalesca, bambola meccanica, manichino settecentesco. Burattino o marionetta, costretto a remare in un mare di buste nere e a muoversi su fondali dipinti, in un’immensa stilizzazione che è segnale d’una scelta precisa: il cinema che sfrutta cinicamente la mimesi (il volto di Donald Sutherland è modellato su quello del più attendibile ritratto dell’avventuriero) per abbandonarsi razionalmente alla diegesi di un narratore (un’autobiografia sulla carta attendibile) e di un autore assoluto (che ha un solo pirandelliano mantra: finzione). Più che “Casanova c’èst moi”, “Casanova est mon”.

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