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Il Casanova di Federico Fellini

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il Casanova di Federico Fellini

di JekSpacey
10 stelle

Dopo il successo enorme di Amarcord (1973), Federico Fellini firma nello stesso anno un contratto col produttore Dino De Laurentis per un film sulla figura, molto in voga in quegli anni, di Giacomo Casanova. Ha inizio così l’autentica odissea produttiva che porterà finalmente all’uscita del film Il Casanova di Federico Fellini nel dicembre del 1976. Odissea che vede avvicendarsi non solo tre diversi produttori prima della realizzazione del film, ma anche vari incidenti, tra cui è impossibile non ricordare il furto di tre rulli di pellicola (Il casanova di Federico Fellini, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini e Un genio, due compari, un pollo di Damiani) compiuto nell’agosto del 1975 dentro gli stabilimenti di Cinecittà. Dino De Laurentis impone a Fellini la condizione di girare il film in inglese con attori inglesi, proponendo per la parte del protagonista star del calibro di Robert Redford, Al Pacino e Marlon Brando, che a detta sua sarebbero state una garanzia. Fellini, tuttavia, si oppone fermamente alle decisioni di De Laurentis ritenendo, secondo la sua visione, impossibile girare il film in inglese, oltre che inadatti per il ruolo i grandi nomi a lui proposti. A De Laurentis subentra allora la Cineriz di Rizzoli, con il quale Fellini trova un accordo per girare il film in italiano e con gli attori che vuole lui. Tuttavia anche questo accordo sarà destinato a sciogliersi, nel gennaio del 1975, nel momento in cui la Cineriz si renderà conto degli enormi costi da affrontare (si stima un costo medio di 5 miliardi di lire), ma anche della volontà di Fellini di trasformare il Casanova della tradizione, ovvero il simbolo italiano della seduzione e del libertinaggio, in un personaggio più complesso e stratificato, in un “italiano tipico”. Quello che sembrava essere un progetto ormai sospeso definitivamente viene salvato in extremis dal produttore Alberto Grimaldi, che produrrà il film in collaborazione con una casa cinematografica inglese. Se, con De Laurentis, Fellini fu categorico riguardo il girare il film in inglese, con Grimaldi finì per accettare queste condizioni, anche perché in un certo senso attratto da quello che poteva essere un tono generale di “distanziazione” che per lui il film doveva avere. Gli accordi presi con Grimaldi prevedevano, tra l’altro, che il film si girasse interamente in Inghilterra, anche per via di un costo della manodopera molto più basso rispetto che in Italia, ma su questo punto Fellini si impuntò duramente per girarlo completamente dentro gli stabilimenti di Cinecittà. A questo proposito, Fellini stesso affermerà: «L’immagine cui penso per il mio Casanova è un tipo di immagine che va controllata da vicino, così mi sento più a mio agio […]. Il ‘Casanova’ ancora più degli altri miei film, mi si propone con esigenze scenografiche e di immagini che debbono essere soddisfatte con la stessa precisione con cui un pittore calibra su una tela i suoi dipinti. E questo lo si ottiene solo in teatro di posa dominando con il più ampio margine di sicurezza possibile tutti i mezzi tecnici a disposizione».

 

Nel Casanova si svolge tutto nei teatri di posa, tutto viene ricostruito, tutto è artificiale, a partire dall’acqua di plastica delle prime scene del film. Tutto ciò permette a Fellini lo stesso dominio che ha, appunto, il pittore quando dipinge il suo quadro. Quest’odissea produttiva che porta alla realizzazione del film si può tranquillamente riflettere nei sentimenti contrastanti dello stesso Fellini nei confronti del personaggio di Giacomo Casanova e della sua fonte letteraria. Il film, infatti, è tratto liberamente da Mémoires de J. Casanova de Seingalt, écrits par lui-mêmee pubblicato postumo intorno al 1825 e poi ripubblicato nel 1960 in un’edizione più conforme al manoscritto originale con il titolo Histoire de ma vie. Se la lettura del Satyricon di Petronio fece nascere in Fellini subito un’emozione, un sentimento del film, le Memorie, al contrario, procurano al regista riminese un senso di malessere, fastidio e soprattutto di estraneità. Ed è proprio questo sentimento di estraneità che suggerisce a Fellini il ‘modo’ di fare il film. Fellini attua nei confronti del film un’operazione di grande straniamento in cui tutto assume un’aria completamente astratta. I caratteri folclorici e provinciali delle pellicole precedenti vengono messi da parte per lasciare spazio ad un’immagine fantasmagorica e allucinatoria il cui senso diviene proprio il mostrare la mancanza di senso. Il Casanova di Federico Fellini si configura, allora, ben presto come un film sul vuoto, come un film mortuario sulla ‘non vita’ del suo personaggio principale: un vitellone che si lascia scorrere sulla realtà senza interpretarla né con un sentimento né con un giudizio. È importante ricordare, a tal proposito, che Fellini più volte si è pronunciato contro gli adattamenti letterari: Il Casanova infatti è solo il terzo film tratto da un romanzo dopo Toby Dammit (1968) e Il Satyricon (1969). Sia in Toby Dammit che nel Satyricon, Fellini reiventa completamente la matrice letteraria plasmandola in base alla sua visione e al suo stile. Con Il Casanova i motivi espressivi non sono mutati: insieme allo sceneggiatore Bernardino Zapponi, Fellini sceglie solo quattro episodi dalla fonte letteraria inventando tutto il resto. Il Casanova spinge al limite ciò che non era stato espresso nel Satyricon, dove l’elemento favolistico era molto presente, accentuando l’impossibilità di una dimensione favolistica e quindi abolendola completamente. Nessun altro film di Fellini, infatti, riesce a raccontare in modo così esplicito il funebre, il lugubre, il luttuoso, l’alienazione di un Settecento, epoca storicamente di splendore artistico e culturale, avvolto in una dimensione di totale indeterminatezza. Questo elemento in particolare può considerarsi come rivelatore, per Fellini infatti il Settecento è dal punto di vista figurativo il secolo più esaurito, e l’impresa da attuare nei suoi confronti è proprio quella di restituirgli una nuova seduzione, una sorta di originalità nuova. In questa intenzione stilistica concorre la dimensione artificiale che avvolge l’intera opera, la sua elegante plasticità, la totale ricostruzione degli ambienti all’interno dei teatri di posa. La dimensione pittorica di quest’opera porta, tra le altre cose, parte della critica ad accostarla al precedente Barry Lyndon (1975) di Kubrick, dal quale tuttavia Fellini si distanzia affermando di aver eseguito un’operazione del tutto contraria rispetto al suo collega statunitense: infatti, mentre Barry Lyndon è girato tutto in esterni e la grandezza del Settecento è rappresentata attraverso inquadrature vastissime, Il Casanova è girato completamente all’interno dei teatri di posa ed è compresso all’interno di ambienti piccoli, attraverso inquadrature claustrofobiche che imprigionano il suo protagonista. Anche la stessa Venezia viene totalmente ricostruita a Cinecittà. Nella sequenza iniziale del Carnevale, la città ci viene mostrata tutta insieme, come fossimo all’interno di un quadro surrealista dove vediamo comparire continuamente tutti i suoi monumenti. La Venezia di Fellini è una Venezia ancora più acquatica di quella reale, una città che si trasforma in un sacco amniotico, in un grembo protettivo dentro il quale Casanova si sente legittimato ad evitare l’assunzione di responsabilità. Secondo Fellini, Giacomo Casanova incarna totalmente l’archetipo mitologico italiano, è un uomo mai cresciuto, infantile, imprigionato per tutta la vita nel ventre di sua madre. Non a caso sceglie Donald Sutherland per interpretare Casanova, un attore dagli occhi celestini come un neonato, che con la sua faccia cancellata, vaga, acquatica fa venire in mente proprio Venezia. Fellini dice di voler raccontare la storia di un uomo che non è mai nato, di una funebre marionetta. La dimensione di indeterminatezza, cui fatto riferimento poc’anzi riguardo la messa in scena del Settecento, può allora tranquillamente riflettersi sul personaggio di Casanova, a sottolineare la sua totale inadeguatezza, la sua incapacità di inserirsi in un modello ideale di uomo universale, in una realtà sia essa di ordine politico, culturale o sociale. Casanova è un uomo immerso nella sua solitudine e nella sua incapacità di amare, l’unica sua certezza rimane il sesso, ma un sesso alienato da un’iperbole grottesca che lo riduce ad un mero atto meccanico, spettacolare, che ha perciò bisogno per la sua realizzazione di un osservatore/spettatore. Fellini arriva a definire il Casanova, infatti, non solo come un film astratto ed informale, ma soprattutto come un balletto meccanico frenetico, da museo delle cere elettrizzato.

 

Emblematica in questo senso è una delle prime sequenze del film, in cui Casanova incontra una monaca nell’isolotto di San Bartolo vicino Venezia. Qui abbiamo la prima rivelazione dell’atto sessuale come un atto assolutamente ripetitivo, osservato da un uccello meccanico con una forma fallica, il quale riproduce una musichetta che ha la funzione di scandire il ritmo dell’amplesso. Questo uccello feticcio, che dopo l’atto sessuale viene riposto nella sua elegante scatola di cuoio e velluto, si configura come l’alter ego goditore-gaudente dello stesso Casanova. In questa sequenza l’atto sessuale viene osservato dall’ambasciatore francese, amante della monaca, collocato dietro un muro dove sono dipinti due pesci (in un altro rimando all’organo genitale maschile). Questa provocazione voyeuristica, tuttavia, non interessa affatto il nostro protagonista, ben più preoccupato di far bene davanti all’occhio compiacente del suo spettatore. L’amplesso con la monaca, infatti, assume quasi le caratteristiche surreali di una coreografia grottesca, di una dimostrazione clownesca di atletismo sessuale.

 

Di ritorno dall’isoletta della suora, Casanova viene arrestato per eresia e pratica della magia nera e rinchiuso ai Piombi. L’evasione rocambolesca dal carcere e l’abbandono della sua amata Venezia costituiscono il punto di svolta narrativo dal quale inizia la sua avventura, un’avventura che tuttavia coincide con la fuga stessa e che sarà caratterizzata esclusivamente dalla frequentazione di luoghi in cui dominano la mondanità e la sessualità. Ed è proprio in questo elemento, di una certa attualità, che Casanova incarna perfettamente l’archetipo mitologico italiano: nonostante raggiunga le più prestigiose corti e i salotti più brillanti, da Parigi a Londra, da Dresda a Württemberg, non solo non ne trae un’evoluzione, ma diviene invece l’agghiacciante prova di una vita consumata per la facciata, per apparire, per sembrare. «Ha girato tutto il mondo ed è come se non si fosse mai mosso dal letto, è proprio un italiano». Jean-Paul Manganaro definisce l’avventura di Casanova come un percorso sessista: non riguarda, cioè, il sesso se non nella misura in cui quest’ultimo rappresenta una moneta di scambio. Nella sua prima tappa dopo la fuga da Venezia, Casanova si ritrova, infatti, a Parigi, nel prestigioso salotto della marchesa D’Urfé: una nobildonna che accoglie nella sua corte non solo intellettuali, ma anche maghi, veggenti e sensitivi. La marchesa, convinta che Casanova sia il portatore del segreto della pietra filosofale, instaura con lui un patto secondo il quale la fusione dei loro corpi e delle loro anime garantirà a lei la rinascita nel corpo di un uomo immortale, mentre a lui gli agi dei tesori posseduti dalla donna. La copula ha, quindi, la funzione di portare alla realizzazione dei percorsi iniziatici di entrambi. Anche qui il sesso assume per Casanova le caratteristiche di una dimostrazione del proprio irresistibile eros, di una capacità performativa ai limiti del buffonesco. Al rito iniziatico, infatti, oltre alla presenza dell’uccello meccanico con la sua musica ipnotica, prende parte anche Marcolina, una prostituta che con il dimenarsi delle sue natiche aiuterà Casanova nella riuscita della sua performance, riconfermando ancora una volta la necessità di uno spettatore voyeur che osservi l’atto sessuale. La dimensione performativa si estende anche alla capacità di Casanova di ostentare una predilezione per i bei discorsi in favore delle donne, con il solo e unico scopo di arruffianarsi la bella di turno: dalla marchesa D’Urfé, a Henriette (considerata dal nostro protagonista il più grande amore della sua vita), alla scienziata Isabella, fino ad arrivare alla gigantessa Angelina.

 

L’importanza della figura femminile nella vita di Casanova non può che rimandare a Guido di 8 ½, interpretato da Marcello Mastroianni. Tutte le figure femminili che circondano il regista non costituiscono altro che il risultato delle sue proiezioni e del suo sguardo filtrato dalle proprie pulsioni psicanalitiche. Le sue fantasie sulla donna (ma anche quelle di Fellini stesso) confluiscono, infatti, nella sequenza onirica dell’harem, dove non solo vengono riunite tutte le donne della sua vita, ma l’harem viene ricostruito nella sua casa d’infanzia, e le mani, i volti e i gesti delle donne, non fanno altro che ripetere i gesti delle madri e delle nutrici della sequenza precedente della sua infanzia. C’è, quindi, una costante atmosfera regressiva, e tutto si riduce ad un evidente complesso edipico, cioè a un desiderio di ritorno al ventre materno. Per quanto riguarda Casanova, l’istanza regressiva è ancora più evidente, specialmente nella sequenza della Grande Mouna, che altro non è che il ventre del Leviatano di Giona, dove Casanova è invitato ad entrare simulando un vero e proprio ritorno al ventre materno (inoltre “mouna” nel dialetto veneto indica proprio l’apparato genitale femminile). In questa sequenza torna la dimensione metacinematografica tanto cara a Fellini, infatti all’interno del ventre della balena c’è una lanterna magica, cioè un rimando esplicito al cinema, che proietta delle immagini orrorifiche tratte da dei disegni che ha fatto l’illustratore francese Rolando Topor. Il cinema viene rappresentato, in questo caso, come una sorta di rito femminile, come un ventre materno. Secondo Fellini il cinema, in quanto seduzione irresistibile, è sempre qualcosa di femminile nella sua essenza.

 

Oltre alla dimensione metacinematografica, torna nel Casanova anche l’elemento circense. Nel momento culminante del tentato suicidio di Casanova, appaiono dinanzi a lui una gigantessa, Angelina, accompagnata da due nani, che con la loro apparizione mistica creano in Casanova un’esitazione ontologica fondata, cioè, sul credere alla possibilità di ritrovare un paesaggio di dolcezza che non immaginava potesse esistere. Questa figura circense viene accompagnata, infatti, da una sorta di filastrocca scritta dal poeta Andrea Zanzotto in petèl, ovvero il linguaggio dei bambini veneti. La gigantessa incarna, allora, l’aspetto spaventoso e allo stesso tempo materno del femminile, proprio come la Saraghina in 8 ½, che dietro la bestialità del suo corpo enorme nascondeva la dolcezza dell’affetto di una madre. Se in 8 ½ la Saraghina rappresentava un fantasma dell’educazione cattolica di Guido e quindi la visione della sua figura inafferrabile costituiva un gioco con la fantasia sessuale infantile, nel Casanova la gigantessa rimane un desiderio voyeuristico del protagonista, come il bambino che sbircia con piacere il corpo nudo di una madre.

 

Le delusioni amorose di Henrietta, poi della gigantessa, e infine della scienziata Isabella, non fanno altro che provocare in Casanova una perpetua perdita della capacità di amare e di sognare. L’unica cosa che gli resta è l’ostentazione della propria fisicità, l’esibizione di un Super-Io in rapporti sessuali che escludono ogni forma di intimità e di affetto, come nella sequenza ambientata a Roma all’interno del palazzo del principe Del Brando, dove quest’ultimo invita Casanova a partecipare ad una gara sessuale contro il suo scudiero Richetto, e quella ambientata a Dresda, dove un Casanova rassegnato all’amore non corrisposto della sua amata Isabella finisce per prendere parte ad un delirante amplesso orgiastico con un gruppo di cantanti d’opera. Il delirio di questa sequenza è suggellato dal movimento bizzarro dell’armadio dentro il quale si consuma l’orgia, ma soprattutto ancora una volta dalla presenza del fedele uccello meccanico di Casanova, il quale nel momento in cui si ferma, tutto il resto si ferma con lui, ed è solo ricaricandolo che l’orgia può ricominciare. Ciò sta ad indicare che Casanova è diventato lui stesso un meccanismo, una marionetta. E allora quella capacità di amare che lui credeva smarrita riappare proprio nelle sembianze di Rosalba, una bambola meccanica, scoperta nella folle corte tedesca di Württemberg, di cui si innamora follemente, proprio perché vede riflesso in lei il suo stesso vuoto esistenziale, la sua stessa ‘non vita’, più semplicemente vede sé stesso, riconfermando in tal senso la sua concezione di un amore fatto di immagini funeree e pulsioni mortuarie. L’inquietante amplesso con la bambola, senza l’ausilio dell’uccello meccanico, perché intriso di vero amore, ne è la dimostrazione lampante.

 

Nella sequenza finale, il Casanova invecchiato e ormai messo ai margini, senza più i favori delle corti, si ritrova a Dux, dove svolge una umile mansione da bibliotecario e viene continuamente deriso dalla servitù del conte che lo ospita. I suoi sogni da intellettuale sono completamente svaniti, nessuno lo prende più sul serio, recita una poesia dell’Ariosto vestito dei suoi migliori ornamenti ma viene preso in giro, ed è allora che sogna di ritornare a Venezia, nel luogo da cui è partito: in una Venezia ghiacciata e funerea, dove sotto il ghiaccio appare di nuovo la dea Luna che nella sequenza iniziale era sprofondata nel Canal Grande. Se nella sequenza onirica dell’harem di 8 ½ la presenza delle donne amate da Guido viene restituita in una dimensione materna e psicanalitica, qui assume, invece, i caratteri fantasmatici di presenze sfuggenti con cui lo stesso Casanova non riesce a interagire. Ad un certo punto appare una carrozza d’oro dove all’interno vediamo due simboli del potere: il papa e la madre, il potere religioso e materno, entrambi responsabili della condizione infantile tipica dell’archetipo mitologico italiano, perenne vittima di una certa forma di bigottismo. Il film si conclude con Casanova ormai solo che ringiovanito concede un ultimo ballo alla bambola Rosalba suggellando il significato di una vita vuota e senza senso.

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