Regia di Stephen Karam vedi scheda film
Per gli alieni i mostri siamo noi umani. Tali appariamo, se ci guardiamo da di fuori, mentre rigurgitiamo i nostri mali profondi.
Un dramma scritto in colonna. Il copione è fatto di pagine divise a metà, da una battuta alla successiva si va salendo o scendendo le scale, sempre tendendo un orecchio a ciò che qualcuno dice lì a fianco. La scrittura di ogni scena è un testo inserito in una planimetria, però verticale, ottenuta tagliando, nel senso dell’altezza, una casa disposta su due livelli. L’azione si svolge, in contemporanea, in più stanze dello stesso appartamento, abitato da nuovi inquilini e parenti in visita, all’insegna di una fresca provvisorietà ironicamente affacciata su un promettente nulla. L’orizzonte non c’è; fuori dalla finestra, attraverso la grata, lo sguardo rimane intrappolato dall’angusta prospettiva di un grigio cortile. Arriva a stento persino il segnale della telefonia. Per avvicinarsi al mondo esterno occorre stendersi lungo il vetro, offrendo il viso e il corpo alle intemperie, ai rovesci di acqua, alle tormente di neve o forse solo alle cascate di cenere buttata via dal vicino. Per i tuoni, invece, si può tranquillamente restare all’interno, a loro provvede l’anziana cinese che abita al piano di sopra. Dentro è l’universo, schiacciato sulle sagome inquiete di una famiglia, in una scatola su misura in cui ogni suono è ridotto ad un sordo rimbombo. Alle storie che si potrebbero raccontare per come sono avvenute si sostituiscono le loro cupe metafore: incubi ricorrenti e sogni impossibili, ricordi traumatici, equivoci sul significato di una preghiera, frustrazioni immerse nell’ombra della depressione, ebbrezze che portano alla rovina, teorie pseudoscientifiche, frasi dettate dalla demenza. I dialoghi di quest’opera, nata per il teatro, e portata pari pari sullo schermo dal suo autore Stephen Karam, rinviano ad un’umanità che l’esistenza stessa vuole sia ricondotta ad un mondo fiabesco: una dimensione nella quale niente è normale, mentre tutto si trasfigura mostruosamente, perché occorre sopperire, con la forza di una fantasia malata e senza talento, alle dolorose perdite fisiche, morali, materiali. I Blake possiedono un fascino del tutto particolare: al solito non detto preferiscono un originalissimo mal detto, una laconicità del pensiero che il pianto fa tracimare dall’anima, riempiendola di struggenti sbavature. Il dolce a cui Deirdre sa resistere, ma che non vuol nominare, è quello panciuto, ricoperto da uno spesso strato di glassa. La passione è un vizio che si disegna col dito, uscendo inesorabilmente dai margini. Trattenersi, fino allo stremo, equivale a rimescolare dentro di sé la pozione magica della tragedia, con l’effetto miracoloso di trasformarla in un veleno dal sapore esclusivo. Un profumo di leggenda precede la libagione finale, che introduce la dissoluzione dell’attimo insolito in una informe routine: prima che la festa finisca e la compagnia si sciolga, la stravaganza si può provare a spiegarla, per inserirla in un discorso eterno, che, all’occasione, si potrà richiamare. Ci saranno anche l’anno prossimo, nel giorno del ringraziamento, i tradizionali canti irlandesi e i maialini di zucchero da prendere a martellate, suonerà ancora quella musica che, per Brigid, è arte vagante nell’aria, in cerca di un posto dove posarsi. Le crepe nei muri non saranno riparate, assicurando un passaggio a scarafaggi e fantasmi. Le lampadine continueranno a saltare, rammentando a tutti quanto sia importante pensare alla luce, prima che sia troppo tardi. Intanto la tristezza del buio serve, eccome, a confidarsi e provare a sostenersi a vicenda.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta