Regia di Pietro Marcello vedi scheda film
Alla fine della Prima guerra mondiale, Raphael (Raphael Thierry) torna dopo l’esperienza al fronte al suo piccolo paese in Normandia. Qui scopre che la moglie Marie è morta lasciandogli una figlia che non sapeva di avere. Raphael è un falegname di gran talento, ma gli è difficile trovare lavoro perché quasi tutti al paese lo trattano con grande diffidenza. Ad aiutarlo è Adeline (Noemie Lvovsky), la tenutaria di una masseria che gli offre ospitalità e quanto basta di calore umano. Intanto la figlia dell’uomo cresce, si chiama Julienne (Julienne Jouan), una ragazza che alla durezza della vita antepone un'indole sognante che la porta ad isolarsi e ad inimicarsi la maggior parte degli abitanti del villaggio. Un giorno, mentre si trova sulle rive di un fiume, incontra una maga (Yolande Moreau) che gli predice che “delle vele scarlatte verranno a portarla via da lì”. Julienne comincia a sperarci e sembra che l'attesa produca i suoi frutti quando un misterioso aviatore (Louis Garrel) arriva direttamente dal cielo per fargli conoscere la bellezza dell'amore.
Che Pietro Marcello sia ormai un autore che ha raggiunto una sua riconoscibile maturità è provato da questa trasferta in Normandia per “Le vele scarlatte”, un film che, ispirandosi liberamente al romanzo omonimo del russo Aleksandr Grin, conserva il tono della favola per raccontare di quando sia importante per la definizione piena della propria personalità non disperdere mai il potere immaginifico custodito nei sogni. Tutto si compie in un arco temporale di venti anni, dal 2009 al 2019, durante i quali Julienne nasce, cresce, soffre, sogna e s’innamora, seguendo una progressione esistenziale che trova il suo culmine nella scoperta del potere rivelatore della fantasia. Una storia di emancipazione femminile raccontata con delicata semplicità, alternando l’asprezza della realtà rurale rappresentata, alle fughe in avanti suggerite dal timbro favolistico che ne sorregge la messinscena. Insomma, alla maniera di chi crede che nelle storie vestite di fantasia esistono dei codici che consentono di aprire le porte del reale. Il cinema Di Pietro Marcello ha sempre fatto emergere la tendenza ad inserire la narrazione filmica in un quadro poetico dove la realtà e l'immaginazione si rincorrono senza soluzione di continuità, diventando parti costitutive di un quadro narrativo in cui diventa difficile identificare il loro esatto confine. È successo con film a tal punto legati al milieu di appartenenza da poterli considerare dei documentari molto sui generis come “La bocca del lupo” e “Bella e perduta”, così come quando si è confrontato con la letteratura importante sintonizzando allo spessore autoriale del testo originario il suo afflato poetico come in “Martin Eden” e “Le vele scarlatte”. Questa cifra stilistica trova la sua fondamentale caratteristica nel fatto di mantenere la storia in una sorta di sospensione temporale, sempre pronta a mutare le sue coordinate riconoscibili. Detto altrimenti, con Pietro Marcello la fotografia (di Marco Graziaplena in questo caso) è sempre al servizio di un’idea del narrare che in ogni istante può decidere di varcare la sogna del vedibile per portarsi oltre il qui e ora. Sotto questo punto di vista, l’inizio del film è abbastanza emblematico con delle file di camion militari che sembrano uscire da un tempo non identificato come a voler insinuare una palpabile sensazione di incertezza. Così come è con Raphael, che trova una figlia che non sapeva di aver messo al mondo ma non ha più una moglie che sta ad aspettarlo, che è appena tornato da una guerra reale ma si ritrova a dover entrare in conflitto contro chi vuole renderlo oggetto del pubblico dileggio. Lui si sente fuori dalla storia perché la fine della guerra lo ha scoperto privato del tempo sufficiente per potersi rimettere in gareggiata. Vive ai margini del senso comune dominante insieme ad una bambina da crescere e al senso di colpa di non poterle offrire una bella vita da poter raccontare. Ma Juliette cresce in un mondo tutto suo, è forte per conto proprio, ed il film si preoccupa di raccontare la sua emancipazione al femminile alla maniera del già indicato stile di Pietro Marcello : lasciando che la storia si adagi più alla fantasia che non conosce tempo che ai fatti reali canonizzati dal tempo che scorre. Una sorta di naturalismo magico che tiene la storia di Julienne perennemente sospesa tra il sogno che tende alla favola e il realismo imposto dalla descrizione d’ambiente della condizione sociale. A riprova di ciò, Julienne incarna ciò che passa tra il reale e il desiderato, tra il vissuto che scorre e la mente che impara a sognare. È quella posizione di mezzo che nel mentre si confronta con il sapore acre della vita, si sintonizza con la bella attesa di un domani migliore che potrebbe arrivare a vele spiegate. L’emancipazione di Julienne passa per lo scorgere la luce laddove sembra solo addensarsi il buio, nel pensare al domani forse abitato dalla conquista dell'amore quando tutto intorno a lei vorrebbe ricacciarla nelle tristezze passate. Si mette a dar credito alle parole di una maga che le profetizza un futuro migliore lontana dal villaggio non perché crede alle profezie fantasiose di una donna strampalata, ma perché, nel suo percorso di crescita, impara a capire che è meglio investire nel potere salvifico di quei sogni per cui vale la pena lottare, che piegarsi fatalisticamente all’esistente. Anche se l'uomo di cui si innamora non è un principe azzurro venuto da un luogo è un tempo imprecisato, ma un aviatore che col suo piccolo aereo arriva d dare una forma concreta al suo sogno d'amore. Un uomo fatto di carne e concretezza che rende ancora più solido il potere emancipatore delle belle speranze, quelle che si vogliono aspettare finché non si realizzano. Bravo Pietro Marcello, che si conferma capace (insieme al sodale Maurizio Braucci) a saper attualizzare storie dal sapore antico, a saper vestire di un romanticismo affatto caricato di retorica ciò che emerge dalle asprezze della vita, a rendere universale caratteri umani confinati nelle zone rurali della Normandia. E a fare della realtà dei sogni in cui si vuol credere un modo delicato per raccontare con realismo il mondo che diviene. Un autore è compiuto.
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