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Il prodigio

Regia di Sebastián Lelio vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il prodigio

di mck
8 stelle

Nan.

 

An Gorta Mór.  

 

 

Principia con una dissimulazione (“In, out. In, out...”) fisica (il para-taumatropico set aperto/chiuso, sezionato, ri/di-svelato, con echi di quelli disegnati sugli assiti delle vontrieriane location/palcoscenici di “Dogville” e “Manderlay” o, più metaforicamente, il “non”... ortodosso scambio di saliva al mentolo tra le due Rachel, Weisz e McAdams, di “Disobedience”, senza voler andare a scomodare l'avanguardista epicizzazione teatrale piscator-brechtiana straniantemente didattica) l’ottavo lungometraggio del cileno cittadino del mondo Sebastián Lelio (la Sagrada Familia, Navidad, el Año del Tigre, Gloria / Bell, una Mujer Fantástica): Kitty O’Donnel, che nel corso del film - tra un'escavante badilata/vangata di torba e l'altra - imparerà a leggere, ci racconta una storia…

 

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Probabilmente tanto il plot twist (la manna proveniente dalle fauci celesti) quanto il colpo di scena (il sacrificio d’amore espiante peccati altrui) nel romanzo di partenza venivano articolati e costruiti progressivamente, con più distillata e reiterata generosità parsimoniosa, mentre qui la loro “prevedibilità” (per lo spettatore mediamente smaliziato) è interamente “sostenuta”, nel primo caso, da un’epifania “forzata” che trasparendo compare all’improvviso dal/sul volto della protagonista [l’infermiera che viaggia in terza classe (treno e traghetto) dall’Inghilterra all’Irlanda e ritorno (tipo Milano Centrale - Busto Arsizio prima e Messina - Villa San Giovanni poi, e viceversa: dalle brughiere dell’Éire al BlackWater di “the Third Day” e soprattutto dell'ultra consimilare “the Essex Serpent”), e che in un lieto fine esiziale per ogni sconforto incarnerà senza iceberg all’orizzonte il “Per noi ragazze / di prima classe // Che per sposarci / si va in A...”], pervadendolo d’agnizione intellettiva (la scena è comunque molto ben recitata e diretta) e nel secondo caso da un paio di sottili avvisaglie preparatorie quali (♦) una suggerente fotografia ritoccata (gli occhi sono lo specchio dell’anima) post-mortem e un evocante accenno (di voce dell’innocente senno fuggita che poi richiamar non vale) all’inferno, ma i due climax pur tuttavia, col loro esser prodromo all’acme vero e proprio, quando durante la resurrezione nel ruscellante pozzo auto-battesimale viene pronunciato il nuovo nome, funzionano ugualmente alla grande.

 


() Nota a margine: le “avvertenze” ad inizio film (le frasette “Sono presenti riferimenti ad a... [omissis]” e “Sono presenti riferimenti a v… [idem]” posizionate dopo il “+16”) sono a volte autentici serbatoi di spoiler, tipo come se prima di “Thelma & Louise” comparisse una scritta che reciti “Attenzione: sono presenti scene esplicite di guida pericolosa in assenza di guardrail e duplice suicidio”.
Certo è che il più grande spoiler sta già nel titolo, no? Un miracoloso prodigio laico (dell'intelletto, dell'intuito, della perseverante speranza cavata a forza da dentro di sé), ma pur sempre wonder.

 


Florence Pugh ("the Falling", "Lady Macbeth", "Marcella", "the Little Drummer Girl", "MidSommar", "Little Women", "Black Widow", "Don’t Worry Darling", "Oppenheimer"), trottolino da combattimento, spadroneggia con grazia, spalleggiata da un gran cast composto innanzitutto dalla molto brava e giovanissima semi-esordiente Kíla Lord Cassidy e dall’eccellente Niamh Algar (“Pure”, “Raised by Wolves”, “Censor”), proseguendo poi con le ottime prestazioni di Tom Burke (Orson Welles in “Mank”) ed Elaine Cassidy (indimenticabile in “Felicia’s Journey” e vera madre della piccola co-protagonista) e giungendo alle facce “cristiano-cattoliche” (ma così “protestanti” à la Dreyer/Bergman) di Toby Jones, Ciarán Hinds, Dermot Crowley e Brían F. O'Byrne.

 


"The Wonder", sceneggiato dallo stesso regista assieme alla scrittrice Emma Donoghue (l’autrice dell’omonimo romanzo originale di un lustro antecedente da cui il flim è fedelmente tratto) e alla drammaturga Alice Birch [che già aveva de-scritto Florence Pugh adattando il “Lady Macbeth” (del distretto di Mcensk) di Leskov, novella già trasfigurata da Sostakovic prima e da Wajda poi], fotografato da Ari Wegner (“In Fabric” e “the Power of the Dog”), che torna a dipingere Florence Pugh dopo averla ritratta nel sopra già pluricitato “Lady Macbeth”, montato da Kristina Hetherington (“Liam”), musicato egregiamente da Matthew Herbert e distribuito da Netflix è - come già detto - l’esplicitazione laica del suo titolo.

 

 

“Né al comitato auto eletto è stato richiesto di spiegare perché supervisionasse l’inedia dell’ennesimo bambino irlandese.”
E da Londra è tutto.

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