Regia di Manlio Gomarasca, Massimiliano Zanin vedi scheda film
Nella versione circolata a Venezia 78, Refn presenta Joe D’Amato non esaltandone le qualità. “Essere bravi è noioso tanto quanto essere cattivi”. Dopodiché con fare didattico e ordinato e rari sprazzi frenetici il film si lancia nel percorso cronologico di una carriera che molti vorrebbero dimenticare. Dall’Emanuelle (una M!) di Laura Gesmer ai pornazzi alimentari degli ultimi anni, il film permette ai più sprovveduti di scoprire la natura di ‘factory’ che riguarda il gruppo di artisti e artigiani che circondavano Joe D’Amato. Tra le parole commosse della figlia (che pure ama il padre perdonandogliene tante) e filmati di repertorio di altri prodotti di quell’Italia pre-televisiva (Soavi, Bava figlio, Deodato), si assiste a un’esplorazione appassionata di un’idea di cinema popolare che scopriva i taboo, scandagliava ciò che c’era sopra e sotto la pelle e costruiva con niente (vero ultra-lo-fi in 35 mm) interi immaginari che hanno segnato generazioni e che, nonostante la truculenza, oggi sanno davvero di infanzia e giovinezza. Una riscoperta dovuta di un traghettatore che porta l’Italia dagli spaghetti western all’eros-thanatos più sfrenati, con una salutare prurigine scioccante che oggi colpisce per quanto fosse inevitabilmente scevra dai berlusconismi di sorta che dopo gli anni Novanta in Italia sarebbero stati irrinunciabili.
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