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Deserto rosso

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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La recensione su Deserto rosso

di alan smithee
10 stelle

VENEZIA 74 - CLASSICI RESTAURATI

"Mi sembra di aver gli occhi bagnati. Cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare."

O ancora:

"Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola":  il malessere supera la fisicità e l'apparato corporeo, per trasferirsi nella psiche, generando conseguenze destabilizzanti su una donna e moglie borghese trentenne, coniugata con un rampante dirigente industriale che l’ha voluta accanto a sé assieme al figlio bambino, immersi tra la cortina di fumo che alte ciminiere sprigionano lungo la vasta area della campagna emiliana riconvertita all’industria.

La donna soffre di un disturbo psichico che ha fatto seguito al trauma derivante da un incidente di macchina: un malessere che la spinge a vagare senza meta, con appresso il bimbo, nelle aree industriali che circondano l’apparato industriale; sullo sfondo, oltre ai fumi velenosi che incorniciano cieli plumbei e si stagliano sopra arbusti e vegetazione stremata, alcune nascenti sommosse operaie si insinuano a contrastare la perfetta coincidenza tra domanda ed offerta di occupazione, nell’ambito di un boom economico che, fino a quel momento, aveva proteso chiunque all’ottimismo, dopo le disgrazie e le rovine della guerra. 

Voglia di fare ed ottimismo che spesso nascondono o fanno mettere da parte malesseri interiori, che invece in Giuliana hanno lasciato una traccia indelebile, conseguenza più vistosa e dolorosa di ogni conseguenza fisica in seguito al predetto incidente d’auto.

La donna -, perennemente sola o circondata da persone che non sanno o non vogliono comprendere il disagio in cui vive - troverà conforto, più che una soluzione ai suoi problemi, tra le braccia di una figura solida e rassicurante: un altro dirigente, collega del marito, Corrado, disposto almeno ad accorgersi della disperazione che pervade l’animo di Giuliana, tormentata per di più dall’ansia per una malattia simulata dal bimbo, desideroso di attenzioni e proteso a simulare un serio problema di mobilità agli arti inferiori.

Nel primo film a colori di Michelangelo Antonioni, sfolgorante grazie alla fotografia di Carlo di Palma, che alterna grigiori senza speranza di una realtà industriale di una Ravenna periferica in piena operatività, ai colori sfavillanti di abiti e acconciature (indimenticabile è il cappotto verde intenso della Vitti), o alle visioni paradisiache dell’isola rosa di Budelli, teatro di una favola improvvisata che una madre angosciata non si fa problemi di raccontare al proprio bambino insonne, il grande regista, premiato a Venezia col Leone D’Oro per il miglior film, prosegue ed accentra la sua attenzione narrativa su problematiche molto in auge in quel periodo, ma di fatto nuove al cinema: disagio esistenziale ed alienazione, depressione, incapacità di comunicare il proprio malessere: tematiche che troveranno un seguito e l’apice di ogni loro manifestazione nei film a respiro internazionale che seguiranno a quest’opera.

Se Richard Harris, rassicurante e massiccio, conferisce al film un tocco internazionale in grado di proiettare la pellicola nel solco delle future produzioni a largo respiro che seguiranno, una splendida Monica Vitti rappresenta il perno e la ragion d’essere di tutto il film: statuaria ma vacillante, tentennante, in grado di rendere alla perfezione la palpabilità di un disagio, di una insicurezza che nessuno riesce a cogliere o percepire, piuttosto ravvisandone superficialmente i contorni di un capriccio legato alla volubilità di una moglie distratta dalla noia del vivere in mezzo agli agi e all’inedia.

 

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