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Deserto rosso

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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La recensione su Deserto rosso

di EightAndHalf
5 stelle

Michelangelo Antonioni nasce a Ferrara nel 1912. Dopo aver conseguito la laurea in Economia e Commercio si avvicina al mondo del Cinema collaborando con Visconti ma anche con Rossellini (dal cui cinema attingerà per tutta la sua carriera), e realizza il suo primo lungometraggio nel 1950, Cronaca di un amore, probabilmente il suo capolavoro. A fronte dell'esperienza neorealista, Antonioni decide di privare quel "genere" dell'impegno civile di cui era impregnato, e di ricondurlo al puro atto estetico/teorico, quello del racconto di una realtà, racconto che nella tradizione della letteratura di fine '800 avrebbe dovuto calarsi nel linguaggio e nella quotidianità del ceto sociale rappresentato, nella realtà stessa. Diciamo dunque che Antonioni trasferisce agli inizi gli assunti verghiani al Cinema, rappresentando un tipo di società medio-borghese (di cui faceva parte) apparentemente priva di riferimenti, facilmente spogliabile e illustrabile nella sua apparenza e nella sua inanità. Indicativo, in tal senso, il carattere decisamente spregevole che Antonioni conferisce ai suoi personaggi. 

Ma l'atto estetico prende strade ben più estreme già ai tempi del Grido. Le azioni dei suoi personaggi diventano attoniti vagabondaggi in scenografie sconsolate, che nell'adempimento di un sogno-incubo tipicamente romantico diventano rappresentazione dell'interiorità dell'Io. Solo che non c'è più un'emozione precisa da estroiettare e disporre sulla superficie delle cose, dunque in un certo senso i film di Antonioni diventano on the road dell'anima, ricerche da parte dei personaggi sulla natura del sentimento umano che ricopre ogni cosa che li circonda. 

Per cui in maniera eccezionalmente innovativa, e con un progetto teorico infallibile (infilmabile?), svuota quelli che stancamente definiamo "contenuti" relegandoli alla disposizione degli oggetti e delle superfici nelle inquadrature. La scelta della borghesia come soggetto delle sue errabonde avventure diventa pretesto per narrare di una vacuità totale ed esistenziale, conoscitiva ancor più che ontologica: Antonioni non è nichilista, ma ha piuttosto totale sfiducia nei confronti delle capacità dell'uomo in termini di conoscenza del reale. 

 

Deserto rosso è l'ottavo film e mezzo di Antonioni, considerando l'episodio de L'amore in città, e non è un caso che venga realizzato giusto un anno dopo il capolavoro felliniano (8 1/2, appunto). E' il primo film a colori del regista ferrarese, il che segna un’importante sfida per Antonioni: come gestire il discorso sull’inconoscibilità del reale adesso che vengono meno i traslucidi e abissali bianchi e neri de L’eclisse e de La notte (forse i pochi superstiti alla freddezza del fondamentalismo antonioniano)?

In realtà nel modus operandi del regista cambia poco: ancora una volta, si inquadra un certo contesto, alcune situazioni, e la vita della protagonista sembra ridursi alle geometrie delle abitazioni, ai fumi delle fabbriche, agli sguardi curiosi e spigolosi di chi la guarda, e alle sue manie e ossessioni. Anche qui c’è un vagabondaggio, quello di Monica Vitti attraverso il mondo spoglio e nebbioso di una periferia nordica grigia e smorta.

 

Tramite decadrages e suggestivi movimenti di camera, Antonioni cerca sempre di mostrare un reale insondabile e misterioso. Divide talvolta in due parti il campo visivo escludendo alla vista una certa porzione di campo (e ripetendo questa azione sempre alla stessa maniera, sempre con le stesse modalità), per esempio tramite una ringhiera, la sbarra di un letto, o semplicemente lo spigolo di un muro. Dispone i suoi personaggi come in scenografie teatrali, raffreddandone la gestualità, come in un onirismo bergmaniano in cui si parla di meno e se si parla si dice comunque molto poco. Riempie i suoi ambienti di fumo e nebbia, in un primo caso con rivoli fuoriuscenti dal terreno come coi fumi della Pozzuoli rosselliniana, in un secondo caso come avviene in Tarkovskij. Dilata i tempi e i ritmi, preferendo il calcolo tecnico di un movimento di sguardo, nel tentativo della percezione intellettuale della forma, piuttosto che la creazione fruttuosa di un’atmosfera, che possa rendere sensorialmente il senso di dispersione e confusione della protagonista. E annega infine tutta la potenzialità espressiva del suo film (già maltrattata da quello che fastidiosamente definiremmo intellettualismo) in una sceneggiatura declamatoria e di pura necessità.

 

Quando parliamo di intellettualismo non parliamo di snobismo, ma letteralmente di interesse (arido e controproducente) di collegare direttamente il senso della vista (e dell’udito) a un teorema logico e razionale: nelle inquadrature di Antonioni si va di pura necessità, e non di espressività, né di impressioni. Niente è lasciato al caso, nelle sue immagini. Neanche l’audio, qui studiato anche nei suoni elettronici ed extra-diegetici. Ma se questo può rappresentare un candore intellettuale e un concetto di base perfetto e immacolato, d’altro canto non rappresenta il Cinema come esperienza vera. Il cinema di Antonioni, per quanto fumoso, è perfettamente descrivibile in altre forme d’arte: è Fotografia, se vogliamo, e Saggistica. Anche perché del Cinema manca quello che è il tassello fondamentale, un ruolo efficace e significante del montaggio.

 

Ogni inquadratura di Antonioni è relegata a sé. Rifiutando il campo-controcampo, Antonioni sfida la pratica del piano-sequenza a farsi portavoce dello spazio fra le cose, o dei suoni che serpeggiano fra le cose (la sequenza più efficace e interessante, quella del racconto della giovane bagnante, che non trova la fonte del canto che sente, sembra saggistica più che Cinema), ma non si limita a dilatare il ritmo, letteralmente lo disconosce. La conseguenzialità fra le sequenze è elementare, ed è come se mancasse un quadro d’insieme. Che questo possa essere volontario è un argomento che può essere discusso, ma se anche lo fosse stato, non sarebbe comunque stato Cinema.

Si potrebbe, spassionatamente, controbattere citando il Cinema di contemporanei come Lav Diaz, o Tsai Ming-liang, i cui film sono narrazioni per piani-sequenza. Ma la cura nel riallaccio fra un piano-sequenza e un altro lì è strabiliante, rivoluzionaria, abissale (qualcuno ha detto che in Lav Diaz ogni stacco di montaggio è come un taglio netto nella percezione spettatoriale, un’implosione). Mentre in Antonioni c’è l’idea di sequenza con più cut senza che questi cut siano gestiti come una regia precisa dovrebbe gestirli, cioè evitando di ridurre la pellicola alla pagina, al trattato, alla glacialità di un testo scritto (e di un testo scientifico, magari, o di approccio entomologico à la Flaubert).

 

In assenza di un’esperienza, nei film di Antonioni non possiamo che attivare altri strumenti di filiazione estetica che sono ben lungi dalla natura spontanea e percettiva dell’occhio. E questo non avviene neanche negli autori più complessi e concettualmente stratificati, perché essi riescono sempre a produrre materia incandescente e importante tramite il gesto filmico e col suo corrispettivo teorico vero, il montaggio, vero e proprio catalizzatore dell’energia creativa registica.

 

Quindi sì, Antonioni fa film interessantissimi, teorici, da libri di scuola. Ma non ha niente a che vedere col Cinema. Forse è una forma d’Arte a parte, utile didatticamente al Cinema. Ma è imprigionata, senza movimento, senza un filo d’aria.

 

Per concludere, è interessante notare come l’unico momento in cui il montaggio risulta pregnante, cioè a dire la presa di coscienza di Monica Vitti di fronte al navigatore straniero (con quel campo lungo-primo piano-campo lungo, su di lei che parla), sembra un dialogo preso di netto dal dialogo finale di 8 ½; e che Antonioni abbia sempre desiderato invertire la materia artistica felliniana non è un mistero, basti pensare all’intervista di André Delvaux (1960) in cui il regista ferrarese racconta come lui avrebbe realizzato la scena dell’altalena di Alberto Sordi ne Lo sceicco bianco, o all’idea di realizzare La notte poco dopo La dolce vita scegliendo pure Marcello Mastroianni come protagonista. Insomma, ad ogni opera felliniana (anch’essa iniziata dalle matrici neorealiste ma giunta poi ad altri lidi) c’era sempre il controcampo antonioniano. E a fronte di questa insipienza artistica, non stupisce il grottesco senile delle ultimi produzioni antonioniane, per gli ammiratori un passo falso, per chi scrive deriva inevitabile di un Cinema morto ancor prima di nascere.

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