Espandi menu
cerca
Deserto rosso

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

Recensioni

L'autore

EightAndHalf

EightAndHalf

Iscritto dal 4 settembre 2013 Vai al suo profilo
  • Seguaci 235
  • Post 59
  • Recensioni 1083
  • Playlist 35
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Deserto rosso

di EightAndHalf
5 stelle

Michelangelo Antonioni nasce a Ferrara nel 1912. Dopo aver conseguito la laurea in Economia e Commercio si avvicina al mondo del Cinema collaborando con Visconti ma anche con Rossellini (dal cui cinema attingerà per tutta la sua carriera), e realizza il suo primo lungometraggio nel 1950, Cronaca di un amore, probabilmente il suo capolavoro. A fronte dell'esperienza neorealista, Antonioni decide di privare quel "genere" dell'impegno civile di cui era impregnato, e di ricondurlo al puro atto estetico/teorico, quello del racconto di una realtà, racconto che nella tradizione della letteratura di fine '800 avrebbe dovuto calarsi nel linguaggio e nella quotidianità del ceto sociale rappresentato, nella realtà stessa. Diciamo dunque che Antonioni trasferisce agli inizi gli assunti verghiani al Cinema, rappresentando un tipo di società medio-borghese (di cui faceva parte) apparentemente priva di riferimenti, facilmente spogliabile e illustrabile nella sua apparenza e nella sua inanità. Indicativo, in tal senso, il carattere decisamente spregevole che Antonioni conferisce ai suoi personaggi. 

Ma l'atto estetico prende strade ben più estreme già ai tempi del Grido. Le azioni dei suoi personaggi diventano attoniti vagabondaggi in scenografie sconsolate, che nell'adempimento di un sogno-incubo tipicamente romantico diventano rappresentazione dell'interiorità dell'Io. Solo che non c'è più un'emozione precisa da estroiettare e disporre sulla superficie delle cose, dunque in un certo senso i film di Antonioni diventano on the road dell'anima, ricerche da parte dei personaggi sulla natura del sentimento umano che ricopre ogni cosa che li circonda. 

Per cui in maniera eccezionalmente innovativa, e con un progetto teorico infallibile (infilmabile?), svuota quelli che stancamente definiamo "contenuti" relegandoli alla disposizione degli oggetti e delle superfici nelle inquadrature. La scelta della borghesia come soggetto delle sue errabonde avventure diventa pretesto per narrare di una vacuità totale ed esistenziale, conoscitiva ancor più che ontologica: Antonioni non è nichilista, ma ha piuttosto totale sfiducia nei confronti delle capacità dell'uomo in termini di conoscenza del reale. 

 

Deserto rosso è l'ottavo film e mezzo di Antonioni, considerando l'episodio de L'amore in città, e non è un caso che venga realizzato giusto un anno dopo il capolavoro felliniano (8 1/2, appunto). E' il primo film a colori del regista ferrarese, il che segna un’importante sfida per Antonioni: come gestire il discorso sull’inconoscibilità del reale adesso che vengono meno i traslucidi e abissali bianchi e neri de L’eclisse e de La notte (forse i pochi superstiti alla freddezza del fondamentalismo antonioniano)?

In realtà nel modus operandi del regista cambia poco: ancora una volta, si inquadra un certo contesto, alcune situazioni, e la vita della protagonista sembra ridursi alle geometrie delle abitazioni, ai fumi delle fabbriche, agli sguardi curiosi e spigolosi di chi la guarda, e alle sue manie e ossessioni. Anche qui c’è un vagabondaggio, quello di Monica Vitti attraverso il mondo spoglio e nebbioso di una periferia nordica grigia e smorta.

 

Tramite decadrages e suggestivi movimenti di camera, Antonioni cerca sempre di mostrare un reale insondabile e misterioso. Divide talvolta in due parti il campo visivo escludendo alla vista una certa porzione di campo (e ripetendo questa azione sempre alla stessa maniera, sempre con le stesse modalità), per esempio tramite una ringhiera, la sbarra di un letto, o semplicemente lo spigolo di un muro. Dispone i suoi personaggi come in scenografie teatrali, raffreddandone la gestualità, come in un onirismo bergmaniano in cui si parla di meno e se si parla si dice comunque molto poco. Riempie i suoi ambienti di fumo e nebbia, in un primo caso con rivoli fuoriuscenti dal terreno come coi fumi della Pozzuoli rosselliniana, in un secondo caso come avviene in Tarkovskij. Dilata i tempi e i ritmi, preferendo il calcolo tecnico di un movimento di sguardo, nel tentativo della percezione intellettuale della forma, piuttosto che la creazione fruttuosa di un’atmosfera, che possa rendere sensorialmente il senso di dispersione e confusione della protagonista. E annega infine tutta la potenzialità espressiva del suo film (già maltrattata da quello che fastidiosamente definiremmo intellettualismo) in una sceneggiatura declamatoria e di pura necessità.

 

Quando parliamo di intellettualismo non parliamo di snobismo, ma letteralmente di interesse (arido e controproducente) di collegare direttamente il senso della vista (e dell’udito) a un teorema logico e razionale: nelle inquadrature di Antonioni si va di pura necessità, e non di espressività, né di impressioni. Niente è lasciato al caso, nelle sue immagini. Neanche l’audio, qui studiato anche nei suoni elettronici ed extra-diegetici. Ma se questo può rappresentare un candore intellettuale e un concetto di base perfetto e immacolato, d’altro canto non rappresenta il Cinema come esperienza vera. Il cinema di Antonioni, per quanto fumoso, è perfettamente descrivibile in altre forme d’arte: è Fotografia, se vogliamo, e Saggistica. Anche perché del Cinema manca quello che è il tassello fondamentale, un ruolo efficace e significante del montaggio.

 

Ogni inquadratura di Antonioni è relegata a sé. Rifiutando il campo-controcampo, Antonioni sfida la pratica del piano-sequenza a farsi portavoce dello spazio fra le cose, o dei suoni che serpeggiano fra le cose (la sequenza più efficace e interessante, quella del racconto della giovane bagnante, che non trova la fonte del canto che sente, sembra saggistica più che Cinema), ma non si limita a dilatare il ritmo, letteralmente lo disconosce. La conseguenzialità fra le sequenze è elementare, ed è come se mancasse un quadro d’insieme. Che questo possa essere volontario è un argomento che può essere discusso, ma se anche lo fosse stato, non sarebbe comunque stato Cinema.

Si potrebbe, spassionatamente, controbattere citando il Cinema di contemporanei come Lav Diaz, o Tsai Ming-liang, i cui film sono narrazioni per piani-sequenza. Ma la cura nel riallaccio fra un piano-sequenza e un altro lì è strabiliante, rivoluzionaria, abissale (qualcuno ha detto che in Lav Diaz ogni stacco di montaggio è come un taglio netto nella percezione spettatoriale, un’implosione). Mentre in Antonioni c’è l’idea di sequenza con più cut senza che questi cut siano gestiti come una regia precisa dovrebbe gestirli, cioè evitando di ridurre la pellicola alla pagina, al trattato, alla glacialità di un testo scritto (e di un testo scientifico, magari, o di approccio entomologico à la Flaubert).

 

In assenza di un’esperienza, nei film di Antonioni non possiamo che attivare altri strumenti di filiazione estetica che sono ben lungi dalla natura spontanea e percettiva dell’occhio. E questo non avviene neanche negli autori più complessi e concettualmente stratificati, perché essi riescono sempre a produrre materia incandescente e importante tramite il gesto filmico e col suo corrispettivo teorico vero, il montaggio, vero e proprio catalizzatore dell’energia creativa registica.

 

Quindi sì, Antonioni fa film interessantissimi, teorici, da libri di scuola. Ma non ha niente a che vedere col Cinema. Forse è una forma d’Arte a parte, utile didatticamente al Cinema. Ma è imprigionata, senza movimento, senza un filo d’aria.

 

Per concludere, è interessante notare come l’unico momento in cui il montaggio risulta pregnante, cioè a dire la presa di coscienza di Monica Vitti di fronte al navigatore straniero (con quel campo lungo-primo piano-campo lungo, su di lei che parla), sembra un dialogo preso di netto dal dialogo finale di 8 ½; e che Antonioni abbia sempre desiderato invertire la materia artistica felliniana non è un mistero, basti pensare all’intervista di André Delvaux (1960) in cui il regista ferrarese racconta come lui avrebbe realizzato la scena dell’altalena di Alberto Sordi ne Lo sceicco bianco, o all’idea di realizzare La notte poco dopo La dolce vita scegliendo pure Marcello Mastroianni come protagonista. Insomma, ad ogni opera felliniana (anch’essa iniziata dalle matrici neorealiste ma giunta poi ad altri lidi) c’era sempre il controcampo antonioniano. E a fronte di questa insipienza artistica, non stupisce il grottesco senile delle ultimi produzioni antonioniane, per gli ammiratori un passo falso, per chi scrive deriva inevitabile di un Cinema morto ancor prima di nascere.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Ultimi commenti

  1. Carica precedenti
  2. steno79
    di steno79

    Analisi molto interessante e tecnicamente di prim'ordine e concordo pure che il Deserto rosso sia un film sostanzialmente minore... ma il tuo rigetto praticamente in toto del cinema del regista ferrarese è degno di migliore causa, perdonami... Antonioni è stato uno dei registi più influenti di sempre... tutta la corrente contemplativa del cinema contemporaneo gli deve molto, per ammissione degli stessi registi fra cui ad esempio Tsai Ming Liang... Deserto rosso può essere visto come un parziale passo falso, ma il regista ci darà ancora due film straordinari come Blow-up e Professione reporter, quest'ultimo secondo me il distillato più autentico del suo cinema e di tutta l'angoscia novecentesca che non a caso risale al Fu Mattia Pascal di Pirandello, ma se ricordo bene non ti erano piaciuti neppure quelli. Scusa ma se questo cinema ti è così ostico, in tutta sincerità come può piacerti così tanto Stray dogs, magnifico anche per me, ma che appare come una estremizzazione formale e contenutistica del cinema del regista italiano?
    Con stima, Stefano

    1. EightAndHalf
      di EightAndHalf

      Ehi, grazie mille Stefano per il commento!
      Sì, in effetti non riesco ad apprezzare davvero nessun Antonioni, ma mai ho negato la sua importanza (nella recensione parlo di utilità e necessità della sua opera), è assolutamente fondamentale. Ma la sua importanza è anche testimonianza del suo invecchiamento: le sue idee sono evolute fino a capolavori come Stray Dogs, in cui banalmente il montaggio e il ritmo, lento e contemplativo, esiste ed è fondamentale (mentre in Antonioni mi sembra conseguenza di costruzioni teoriche infilmabile, dunque qualcosa di fondamentalmente non necessario, non funzionale)

  3. Leo Maltin
    di Leo Maltin

    La tua disamina è ineccepibile, anche io per certi aspetti considero Deserto rosso un film ostico, faticoso e asfissiante (ancora adesso infatti oscillo nel dire se mi sia più piaciuto o l'abbia trovato detestabile). Per quanto riguarda la sua tetralogia esistenziale - di cui questo film è l'epilogo - forse l'approccio più consono per affrontarla consiste nel ritenere questo cerebralismo del regista anche come stato d'animo.

    1. EightAndHalf
      di EightAndHalf

      Ci ho provato, Gianluca, ma trovo pochissimo di umano nel celebralismo di Antonioni. Vedo piuttosto un tentativo di ascesi dal relativismo proprio della percezione umana, una seriosità che più si adatta a un testo scritto che a una pellicola. Insomma mi pare che dei suoi personaggi Antonioni non fa altro che notare l'incapacita di conoscere, e di conseguenza di relazionarsi con gli altri, e anche fosse il tentativo di "teorizzare" uno stato d'animo, mi pare un tentativo sterile

    2. Leo Maltin
      di Leo Maltin

      La stessa critica gli ha riconosciuto l'unicità della sua poetica esistenziale, che chiaramente può piacere o meno. Forse, in un'epoca di iper-connessione perenne quale stiamo vivendo, vedere un suo film - prima della svolta "internazionale" in inglese - può essere straniante (nel bene come in negativo).

    3. EightAndHalf
      di EightAndHalf

      Boh credo che il valore che tutt'ora si riconosce a film di Tsai come di Diaz come di Dumont dimostri che si tratta di aspetti che dovrebbero essere immortali e insensibili ai costumi. Che poi non lo trovo invecchiato perché c'è stato un cambiamento di gusti, lo trovo invecchiato perché "superato" (da molti, compresi i maestri suddetti)

    4. Leo Maltin
      di Leo Maltin

      È stato superato proprio perché il suo corrispettivo filmico così chiuso, intransigente, solipstico, autoreferenziale (almeno fino a Professione: reporter) non consentiva di far altro.

  4. Dompi
    di Dompi

    Ti considero una persona molto intelligente quindi accetto benissimo la tua critica al cinema di Antonioni che è espressa in maniera dettagliata. Non sono ovviamente d'accordo: il montaggio in Antonioni è costruito sempre con maestria ed eleganza. Ti faccio due esempi: prendi ad esempio lo stacco nell'eclisse sul volto della Vitti, in quel caso ci si aspetterebbe un controcampo di ciò che sta guardando ma la scena dopo Antonioni inquadra delle sbarre di un cancello. Il montaggio qui è profondissimo nella sua essenza e ci restituisce la condizione psicologica del personaggio della Vitti: bloccata nei suoi sentimenti interiori ecc... Prendi poi la sequenza verso l'inizio dell'Avventura: anche qui il montaggio da parte di Antonioni ha una precisa scelta stilistica. In quella scena vediamo l'amica della Vitti che va dall'amante mentre per tutta la scena vediamo la Vitti girovagare attorno alla piazza e ad una bottega. Anche qui il montaggio restituisce la condizione in cui verserà il personaggio della Vitti per tutto il film, un personaggio in sospeso che diventa testimone della vita degli altri personaggi(infatti l'unico momento in cui viene a sua volta guardata da altri personaggi è quando si reca alla cattedrale con l'ex della amica). Ho scritto un po' di fretta però mi piacerebbe sentire la tua opinione al riguardo. Voglio solo concludere che Antonioni non è mai un realista ma un formalista, si è preoccupato nel suo cinema di creare forme, però affermare che il montaggio nel suo cinema non ha una cifra stilistica essenziale per me è molto riduttivo. Aspetto la tua risposta, ciao Eight!

    1. EightAndHalf
      di EightAndHalf

      Commento notevole, Dompi! E in effetti ti devo dire che non ho mai visto 'L'avventura' sotto il punto di vista della mutua osservazione dei personaggi, ma sapevo già che 'L'avventura' dovrò rivederlo perché è stata una delle mie prime esperienze antonioniane. 'L'eclisse' è poi il mio preferito della mitica tetralogia, e lì indubbiamente il montaggio offre maggiori suggestioni. Ma trovo, appunto, che siano suggestioni concentrate in pochi attimi, anche rispetto a un minutaggio esteso come può essere quello dell'Avventura. Inoltre, per come li hai espressi tu, io noto più l'esplorazione di un concetto che di una percezione/sensazione, che è quello che in un modo o nell'altro ritrovo e ricerco sempre nel cinema d'autore (anche negli autori più concettuali, ivi compreso Lav Diaz, Tsai, Greenaway, Dumont). Se per esempio ti faccio l'esempio degli infidissimi campi/controcampi di 'Hors Satan' lo faccio per mostrare come essi non siano aspetti concettuali, o per meglio dire "rimandi a contenuti", ma siano piuttosto viatici per indurre il giusto disorientamento allo spettatore (mezzi poi eventualmente interpretabili a posteriori: ma l'analisi a posteriori ha poco a che fare con il Cinema). E' come se in Antonioni vedessi da parte dell'operazione-montaggio l'occhiolino del regista per indurre all'interpretazione, piuttosto che il portare avanti un discorso che possa partire effettivamente dall'occhio e dall'analisi dei significanti (che è poi l'obbiettivo del finale dell'Eclisse, bellissimo dal canto suo, ma fortemente connotato nell'ambito delle singole inquadrature, più che nel suo sincopato non-ritmo).
      E penso ancora a 'Solaris' di Tarkovskij, con le apparizioni, i dettagli e i fantasmi. Penso a Kubrick, nell'alternanza di campi-controcampi e di rapide carrellate da un primo piano all'altro. E penso addirittura a Carpenter. In tutti questi c'è il gusto per il movimento di camera. Ma c'è anche quello della corrispondenza fra un cut e l'altro, ed è una corrispondenza che rielabora il Reale attraverso mezzi percettivi, e non attraverso tesi concettuali. Insomma, è una corrispondenza che scolpisce il tempo al Cinema!
      Se dico che in questo senso Antonioni abbia fatto sempre film a tesi, non ci si stupisca al riguardo.
      Ciao Dompi!

    2. Dompi
      di Dompi

      grazie per il complimento, Antonioni è uno dei miei registi preferiti non potevo non rispondere alla tua critica. Sai cosa? Secondo me sbagli ad estendere i difetti presenti in "Deserto Rosso" alla filmografia di Antonioni. Appurati i difetti che "Deserto Rosso" presenta, pur ritenendolo un grande film, continuo a pensare che la filmografia di Antonioni sia vero Cinema. E' Cinema perchè in tutta la sua filmografia è l'immagine a parlare, numerosissimi sono i momenti conteplativi, la musica è quasi assente e con l'Avventura la narrazione della sua filmografia inizia a volgere verso la non-narrazione dove la causalità delle azioni ad Antonioni inizia a non interessare più.

      Infatti, Antonioni da un certo punto in poi ha affermato di essere stato interessato non alle cause ma alle conseguenze che un certo evento scatenerà nei personaggi. Nell'Avventura è lampante ed è per questo che ti consiglio di riguardarlo: un personaggio scompare, Antonioni non svela mai dove sia andato e quale sia stata la causa della sua scomparsa ma per tutto il film vediamo come i personaggi reagiscono a questa scomparsa. E nell'Avventura, se ritorniamo a parlare del montaggio, quest'ultimo è essenziale e di grande valenza. Prendi solo la sequenza della scomparsa di Lea Massari che è pregnante a questo proposito: per la prima volta sentiamo la presenza della musica nel film, una presenza che fa da controaltare ad un'assenza, il montaggio inquadra ogni personaggio a sè, sperduto nell'isola che cammina alla ricerca della propria amica e forse di un senso interiore alla propria vita. In quella sequenza poi Antonioni commette di proposito errori di montaggio, ad esempio ci sono controcampi sbagliati, per accentuare ancora di più il senso disorientamento che tutti i personaggi stanno vivendo in quel preciso momento. Ti consiglio di riguardarlo perchè tutto il film, insieme alla scena che ti avevo proposto in precedenza, possiede un montaggio che è vibrante di valenze tematiche e soprattutto è un montaggio che fa del film un'opera di Cinema.

      Allo stesso modo ne L'eclisse abbiamo questi accorgimenti dal punto di vista del montaggio, dall'uso delle ellissi, del falso raccordo, del campo/controcampo e delle soggettive. Sempre per citare, c'è una scena del film dove Delon e la Vitti amoreggiano, subito dopo Antonioni stacca all'improvviso su un grande campo incolto, una scelta stilistica che sta a simboleggiare i vuoti sentimenti tra i due personaggi che sul finale si riveleranno per quello che sono: una assenza. Ti ho portato questi esempi per dirti che io non trovo che questi accorgimenti del montaggio siano solo suggestioni assimilabili in pochi momenti. E' impossibile elencare tutti gli usi del montaggio nella filmografia di Antonioni, ovviamente, però io due esempi forti della sua filmografia che "cercano" di smontare la tua tesi li ho portati avanti.

      Poi secondo me bisognerebbe fare un altro discorso sull'eredità che Antonioni ha lasciato nel cinema: lessi molto tempo fa un libro dove si identificava Antonioni come il regista "più orientale" dei nostri. Infatti l'eredità che ha lasciato a Ming Liang o a Kar-wai è lampante. Questa eredità però secondo me non va ricercata nell'uso del montaggio come hai detto(spero di aver inteso la tua opinione su questo punto): come dici bene gli stacchi di un film come Stray Dogs, uno dei miei film preferiti, hanno una potenza grandissima rispetto agli stacchi di montaggio del cinema di Antonioni (e anche in generale nei confronti di altri registi). Su questo sono d'accordo con te, però secondo me l'eredità di Antonioni nel cinema orientale verte più sulla composizione dell'immagine, sullo spazio, sui pieni e suoi vuoti, sugli sguardi e sulla narrazione. Kar-wai a questo proposito nelle sue interviste cita spesso questi punti parlando delle superfici e delle inquadrature nel cinema di Antonioni. Mentre se ben ricordo Tsai cita Antonioni nella ricerca di una non-narrazione e della non-consequenzialità delle azioni, infatti Tsai non usa mai una sceneggiatura vera e propria. Per riassumere, secondo me, l'eredità di Antonioni nel cinema orientale si gioca dal punto di vista della narrazione e dell'inquadratura non nel montaggio. Discorso diverso è per registi europei come Dumont che hanno adottato nella loro filmografia soluzioni visive di montaggio pressochè uguali a quelle proposte dai film di Antonioni: Hors Satan ne è un esempio. Poi bisognerebbe citare anche Tarkovskij quando ha parlato di Antonioni ma è già abbastanza quello che ho scritto.
      Fammi sapere che ne pensi, grazie per la chiacchierata ;D

    3. EightAndHalf
      di EightAndHalf

      Premettendo che questa è una delle discussioni più costruttive e interessanti che abbia mai fatto sul cinema di Antonioni, reputo che comunque gli esempi che hai portato tu rispetto al montaggio antonioniano più che smontare la mia tesi la "rafforzino".. Per come la vedo io, il montaggio non serve a simboleggiare, serve a ricreare un senso e un particolare tipo di percezione. Più che il "simboleggiare il vuoto dei sentimenti" (che mi sa appunto di tesi quasi facilona, su cui si discute già col cinema di Bergman nonché di Stroheim e di altri maestri del muto), mi interesserebbe la riproduzione sinestetica del vuoto di questi sentimenti (ti cito a tal proposito 'Luci d'inverno' di Bergman, che è una mia visione recente: il vuoto della vita del protagonista non è ricordato schematicamente con uno stacco di montaggio, ma a partire dal campo/controcampo, dalle luci, e da una gestione dello spazio che richiama più alle sensazioni che alle tematiche: il vuoto è una conclusione dello spettatore, non di una didascalica presa di posizione del regista). Trovo molto incoerente la ricerca sull'immagine e sulle superfici, se poi quelle immagini e quelle superfici rimandano a un contenuto.
      Mi interessa di più invece il discorso che fai sui falsi campi/controcampi de 'L'avventura', che ovviamente devo rivedere: ora come ora comunque preferisco di gran lunga 'Deserto rosso', 'L'eclisse' e 'La notte' all' 'Avventura'.
      Se comunque il disorientamento è analogo a quello reso con 'Blow-Up', non troverà certo il mio consenso: in 'Blow-Up' si sa sempre cosa si sta guardando, anche se Antonioni spererebbe nel contrario. Ho scritto una recensione al riguardo.
      A proposito dell'attenzione alle "conseguenze" delle azioni più che al rapporto causa-effetto, ti consiglio 'Une Vie' di Stéphane Brizé, dell'anno scorso: intendo una buona resa di quello che hai ben descritto in quel modo lì, più che nel modo antonioniano. Insomma io in Antonioni vedo sempre il calcolo, lo studio a tavolino, una costruzione a posteriori che sfrutta l'immagine, e che non pone l'immagine come fine ultimo.
      Se analizziamo la costruzione della singola immagine, a prescindere dal montaggio (pesante, ingombrante, quasi necessario più che funzionale), trovo anche qui il peso della costruzione mentale. Troviamo immagini anche più articolate, tra uno stacco e l'altro, sia in Tarkovskij che in Bergman che nei più recenti Diaz e Tsai. Tarkovskij però non ha la tesi del vuoto dei sentimenti, e Bergman è più espressionista che realmente interessato alle tematiche: loro due sono il vero primo Cinema dell'immagine.
      In Tsai e Diaz ci muoviamo sporadicamente; in Antonioni ci muoviamo sempre, perché il personaggio deve sempre essere in contrasto con qualche elemento dell'immagine. Non c'è mai un discorso che fila, c'è sempre l'intuizione momentanea.
      Se Tsai, Diaz, Bergman, Tarkovskij, anche Dumont, realizzavano e realizzano sinfonie, Antonioni componeva haiku.

    4. Dompi
      di Dompi

      Ah cavoli! Scusa ho visto ora la tua risposta, è passata ormai una settimana. Avrei altro da dirti, però molte cose ce le siamo già dette, quindi ti ringrazio per la conversazione stimolante e ci salutiamo! Alla prossima ;D

  5. jonas
    di jonas

    Ribadisco concetti che ho già espresso qua e là: 1) Antonioni aveva iniziato bene (Cronaca di un amore e La signora delle camelie, per me, sono le sue cose migliori), poi ha scoperto l'incomunicabilità ed è stata la fine. 2) Buona parte dei suoi film sarebbero perfetti se fossero muti: i suoi dialoghi sono inascoltabili, mentre un certo talento visivo ce l'aveva. 3) Film come L'eclisse e Deserto rosso non li considero invecchiati per il semplice motivo che erano già vecchi quando sono usciti: per capire l'Italia di quegli anni sono mille volte più utili commedie come Il sorpasso. 4) Film come Blow-up e Professione: reporter sarebbero potuti essere capolavori se diretti da un altro regista: il soggetto è intrigante, il modo in cui lo spreca grida vendetta. 5) Per film come Identificazione di una donna la tua ultima frase è il commento migliore che si possa trovare.

    1. EightAndHalf
      di EightAndHalf

      Jonas, mi fai sentire un po' meno solo!
      1) Ho visto solo Cronaca di un amore, ma penso che l'Antonioni da Cronaca di un amore fino a Le amiche possa piacermi davvero.
      Più che l'incomunicabilità, ha scoperto la formula di cinema borghese (contro il cinema borghese, che genio), e di cinema da festival (che è un po' il cancro del cinema contemporaneo). Per il resto non diceva niente di interessante: immagini vuote per intendere il vuoto, immagini misteriose per intendere il misterioso, immagini nevrotiche per intendere le nevrosi, nessun contrasto, nessun dubbio, nessuna contraddizione.
      2) D'accordissimo sui dialoghi: in 'Deserto rosso' l'ingegnere "insensibile" di cui si racconta l'insensibilità quando dice che "la moglie ha i meccanismi che non ingranano bene" è terribile. Così com'è terribile il dialogo finale fra la Vitti e Delon ne 'L'eclisse'. Non sono orribili di per sé, ma proprio nella grammatica filmica; alla fine i personaggi dell'ultimo cinema di Malick non dicono cose troppo diverse (rispetto a quel particolare dialogo), ma grazie al Cinema e a tutto ciò che esso rappresenta, riusciamo a prenderli sul serio.
      3) Penso che l'unica cosa che vagamente si salvi del cinema di Antonioni sia l'inquadratura di un certo contesto sociale. Il fatto è che Antonioni sembra farne parte per primo e non rendersene conto. E comunque arriva sempre in ritardo rispetto a Dino Risi e Federico Fellini. I fan rimediano a questo dicendo che lui è "disinteressato" alle tematiche. Bah.
      4) D'accordissimo su questi due film. Intriganti sulla carta, senza mistero né anima nei fatti.
      5) Ancora non ho visto Identificazione di una donna, ma di Antonioni devo vedere tutto e bene, quindi lo recupererò sicuramente. Come si dice, meglio tenersi stretti gli amici, e ancora più stretti i nemici..

  6. jonas
    di jonas

    Postille.
    1) Le amiche si salva ancora, come si salvano Il grido, L'avventura (almeno finché resta in scena la Massari) e La notte. Però, sì, a un certo punto è come se fosse rimasto prigioniero della gabbia che si era costruito.
    2) Sarà un caso che le cose migliori di L'eclisse e Professione: reporter sono le due scene finali senza parole? :-)
    3) Visto che ho citato Risi e tu gli hai accostato Fellini, mi piace ripetere che sul versante drammatico il capolavoro misconosciuto di quegli anni è I delfini di Maselli: come ho scritto a suo luogo, fa capire come i temi scelti da Antonioni potessero essere svolti mille volte meglio.
    4) Guarda, a volte mi sono chiesto come sarebbe venuto Professione: reporter diretto da un regista americano. Il confronto con il risultato (= peregrinazioni senza meta di un tizio meditabondo, ossia il tipico soggetto di Antonioni) è impietoso.
    5) A me manca solo Il mistero di Oberwald: "manca" per modo di dire, perché non ho nessuna fretta di colmare la lacuna.
    Ciao.

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati

Errore:

chiudi