Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
La solitudine dell'uomo nello spazio che lo circonda, naufrago fra gli oggetti, fra gli altri uomini, fra le parole vuote che scandiscono il ritmo di una insulsa quotidianità. “C'è qualcosa di terribile e io non so cos'è, nessuno me lo dice”, sono fra le parole finali della Vitti (bravissima), impegnata in un altro personaggio alla Antonioni, forse anzi quello più emblematico di tutto il suo cinema e uno dei più incisivi affidati all’attrice, una vittima innocente della sua stessa coscienza e dell'incomunicabile che lo separa dal resto degli esseri umani. E allo stesso modo carnefice di chi lo circonda, costretto a dialoghi impotenti, azioni prive di significato, rincorse verso il nulla (il suicidio è sempre presente nelle intenzioni di Giuliana). Il livello dell'ansia, ben interpretato a livello figurativo dai desolati scenari della periferia industriale ravennate, rimane costantemente alto per tutto il film; i dialoghi sono volutamente sospesi fra il filosofico e il banale del già detto e già sentito; la cura maniacale per la fotografia (Carlo di Palma: comincia qui un felice sodalizio con Antonioni) raggiunge l'apice in questo che è il primo film a colori del Maestro ferrarese. E che non poteva essere altrimenti: sia perchè siamo nel 1964 e non solo il cinema, ma il mondo concreto, esterno è ormai completamente colorato (il regista insiste infatti nel proporre dettagli appositamente dipinti, dalle pareti degli interni agli oggetti di comune uso, fino alle – in pratica leggendarie – mele pitturate di grigio per esigenze di uniformità estetica con il carretto su cui si trovano); sia perchè Il deserto rosso è in sostanza un viaggio nella follia dei nostri giorni e soltanto le infinite potenzialità suggestive del colore possono rendere l’idea della caleidoscopica sfaccettatura del malessere della protagonista. Accanto alla Vitti non ci sono nomi famosissimi: i più celebri sono quelli dell’irlandese Richard Harris (con Antonioni anche nel successivo I tre volti, film a episodi) e di Xenia Valderi, già vista in particine con Fellini (ne Il bidone) e Zampa (La romana). Il deserto rosso continua, a mezzo secolo dalla sua uscita, a generare equivoci attorno alla sua appartenenza o meno a una presunta quadrilogia composta anche dal trittico (dichiaratamente tale nelle parole dello stesso regista) L’avventura-L’eclisse-La notte; la questione è complicata da vari aspetti contrastanti: se Il deserto rosso è il primo film a colori per Antonioni ed esaspera, perfino snatura le componenti dei suoi precedenti lavori (il non detto ora diviene follia: la differenza fondamentale è quella fra ciò che non si vuole e ciò che non si può dire), questa pellicola d’altronde segue fedelmente molti dei classici stilemi del cinema antonioniano; un altro finora non detto, ma da aggiungere: le musiche affidate ancora una volta a Giovanni Fusco e quasi azzerate, ridotte a rumori meccanici e ripetitivi, quasi suggestioni auditive. Tonino Guerra collabora ancora con il regista, ed è la quarta volta, alla sceneggiatura; sebbene già detto praticamente ovunque, non è comunque superfluo ricordare che la lentezza (o totale mancanza) dell’azione, i dialoghi spesso inconcludenti e le inquadrature non sempre incentrate sui personaggi sono, sì, il marchio di Antonioni, ma non si tratta solamente di una personale scelta estetica (questa pellicola potrebbe anche semplicemente considerarsi un saggio di fotografia!): si tratta anche e soprattutto di una provocazione/sperimentazione tesa a modernizzare (attualizzare) un’arte, come il cinema, che passato il mezzo secolo di vita chiedeva insistentemente nuove vie da esplorare. In tale senso, Il deserto rosso costituisce certamente una quadrilogia con i tre titoli precedenti del regista, e si può porre sullo stesso piano di lavori come Hiroshima mon amour/L’anno scorso a Marienbad (Resnais), come il dittico La dolce vita/8 ½ di Fellini, come i primissimi esperimenti di Godard (pur ottenendo, questi, esiti altalenanti). 7,5/10.
Giuliana è rimasta scioccata da un incidente d'auto e non riesce più a capire cosa significhi la sua vita: il marito, il figlio, la provincia desolante in cui vive; nemmeno un amante la scuote dal torpore in cui vive, ormai completamente chiusa in sè.
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