Regia di Paul Wegener, Carl Boese vedi scheda film
Ci sono molti film che si ispirano alla leggenda del Golem.
Potremmo citare fra questi, quello di Julian Duvivier del 1936, la versione cecoslovacca dal titolo L’imperatore della città d’oro, realizzata da Marc Fric nel 1951, oppure per arrivare a date più recenti, la curiosa rilettura fatta nel 1991 da Amos Gitai che, annoverando nel cast la presenza inusuale di un folto stuolo di registi di primo piano resisi disponibili alla collaborazione in veste di attori (nomi importanti ed elitari del calibro di Philippe Garrell, Samuel Fuller e del nostro Bernardo Bertolucci), ha come protagonisti proprio nelle vesti dell’automa, gli spaesati Hanna Schygulla e Vittorio Mezzogiorno (e un abbastanza disastroso esito complessivo della messa in scena), o quella meno conosciuta ma altrettanto particolare del 2003 di Louis Nero realizzata con il contributo della regione Piemonte e la voce narrante di Moni Ovadia (una sorta di ipertesto frammentato in suggestioni mitico-culturali, simbologie cabalistiche e visioni a flusso continuo, come l’ha definita M. Caron).
Il cantore per eccellenza del “mito” comunque, è stato senza ombra di dubbio Paul Wegener che sull’argomento ha realizzato e interpretato ben tre opere (tutte ascrivibili nel ristretto novero dei risultati più fecondi e significativi della corrente espressionista del cinema tedesco): nel 1915 (Der Golem, und wie er auf die Welt kam), nel 1917 (Der Golem und die Tanzerim) e nel 1920 (il Der Golem con la co-regia Carl Boese, fra tutte quella più compiuta, importante e articolata, e alla quale mi riferisco con queste note).
Tutte le pellicole sopra citate, seppure con spirito interpretativo non sempre uniforme fra di loro, traggono origine ispirativa da antichissime, medievali leggende ebraiche praghesi più volte riprese e rielaborate da scrittori cecoslovacchi e tedeschi di varie epoche e tendenze (narrano la storia del rabbino Loew che, ricorrendo a formule magiche, riuscirà a plasmare con la creta un automa umanizzato - il Golem appunto – perfettamente similare nelle sembianze, ma privato del più grande bene della vita, quello di dare e ricevere amore, che sarà poi una delle ragioni determinanti nello scatenare la sua feroce ribellione contro l’imperatore e il suo stesso creatore, reo di averlo reso “mostro”). La parabola, che simboleggia in pratica la presunzione umana di chi vuole imitare la creazione divina costruendo a sua volta un essere a propria immagine e “simiglianza” senza essere però capace di infondergli anche un’anima, ha trovato però la sua sintesi più celebrata e definitiva (oltre che il riferimento più specifico) nella penna dello scrittore austriaco Gustav Meyrink (ne è debitrice in buona parte anche la Shelley), che dette alle stampe proprio nel 1915, il romanzo corrispondente, con il quale fornisce finalmente al personaggio la dimensione necessaria per entrare a pieno titolo fra i classici immortali.
Come ho già accennato, la versione cinematografica più pertinente, è proprio quella del 1920 che si basa su una sceneggiatura dello stesso Wegener e di Henrik Galeen, e utilizza la sorprendente magniloquenza di un originalissimo impianto scenografico post-espressionista (o che potrei forse meglio definire come il felice esito di una intelligente rivisitazione ragionata del modello espressionista), realizzato con eccezionale competenza visionaria, da Hans Pöltzing (un anno soltanto separa quest’opera dal Caligari al quale è senz’altro debitrice nell’ispirazione, ma la differenza delle forme, più avvolgenti e meditate, è già evidente e marcata e tale da fare in qualche modo la differenza), che la straordinaria, suggestiva fotografia di Karl Freund valorizza al massimo livello (si notino fra le tante splendide “invenzioni visive”, proprio l’architettonica composizione delle costruzioni immaginate e realizzate ispirandosi direttamente ai costumi degli abitanti di quelle case, o anche il suggestivo particolare della scala a forma di padiglione auricolare, per non dimenticare però nemmeno l’amalgama stupefacente che si viene a creare fra i fondali e le figure che ci si muovono davanti e intorno - notevolissima la maestria tecnica raggiunta - soprattutto nei passaggi più arditi e innovativi come quelli dell’apparizione delle progenie ebraiche, o dell’atro impressionante momento che ci mostra i multiformi e mutevoli movimenti della folla nella sequenza dell’evocazione di Asteroth, di una potenza dinamica e una fluidità davvero inusuali per l’epoca).
Si deve parlare allora in questo caso di qualcosa di più e di meglio di un calligarismo di riporto, termine con il quale vennero spesso etichettate nell’immediato – e non sempre in positivo - tutte le pellicole realizzate dopo quel capostipite importante, proprio sull’onda del suo straordinario successo che aveva fatto “tendenza”). Se si tiene infatti conto che Wegener oltre ad avere già incontrato il Golem nel 1915, nel 1913 era stato anche l’interprete principale (ancora in coppia con Lydia Salmonova) di quel Lo studente di Praga del danese Stellan Rye che è uno dei precursori riconosciuti della corrente, e che Rye resta a pieno titolo una delle figure più interessanti e creative fra quelle che prelusero all’espressionismo tedesco vero e proprio, persino un anticipatore, essendo stato l’autore al quale si può attribuire semmai la matrice indotta di quella specifica modalità espressiva (il calligarismo, appunto), visto che il suo La casa senza porte né finestre che l’intellighenzia critica poco informata dell’epoca, incapace di verificare persino il calendario, considerò a torto per molto tempo poco più che una scopiazzatura del film di Wiene, lo precede invece di circa sei anni (è stato realizzato nel 1914), si dovrà convenire in fondo che i germi fecondi, le ipotesi, i suggerimenti, le intuizioni, circolavano già da tempo, si propagavano nell’aria e nelle menti così trasversalmente, da rendere difficoltose le attribuzioni di paternità “certe” e che di conseguenza dovrebbero adesso essere sfatati alcuni dei luoghi comuni sull’argomento, e molti postulati potrebbero essere se non rivisti, per lo meno in parte riconsiderati meglio).
Il calligarismo ha un’importanza fondamentale per lo studio dell’espressionismo cinematografico, e per la sua strabiliante affermazione, questo è indubbio, ma non è certamente il solo elemento da tenere in riferimento primario, soprattutto nell’ottica aggiornata di una revisione critica a posteriori che analizza tutte le componenti dinamiche e contenutistiche di quei lavori che continuano a lasciare impronte non solo “citazioniste” anche nel presente, come un “segno” indelebile e riconoscibilissimo che allarga l’affascinate rete suggiostionale delle sue valenze oniriche, che si affacciano prepotenti prendendo nuova forma e consistenza ben oltre gli immediati riferimenti successivi al 1933 che potrebbero essere individuati nei nomi di Billy Wilder, Robert Siodmak e nel periodo americano di Fritz Lang o del Welles stesso(l’ultima opera di Scorsese adesso in programmazione ne è un esempio significativo e potente.
Siegfrid Krakauer con il suo fondamentale, imprescindibile saggio From Caligari to Hitler con il quale ha inteso “diagnosticare” i mali di una società utilizzando l’analisi delle opere cinematografiche di riferimento realizzate dalle sue menti migliori, ha abbastanza giustamente osservato che il Caligari di Wiene aveva aperto e messo in moto un corteo di tiranni, esprimendo così un giudizio anche politico, mentre la lucida riflessività di un Sadoul, approcciandosi al problema da una prospettiva più storico-cronachistica, osservava acutamente che non solo di questo si trattava, ma che esisteva anche il senso di un lugubre presagio “esorcizzante” e a più facce che annuncia la sciagura, quando sottolineava per esempio che se Nosferatu il vampiro (Murnau) con il suo esercito di topi è il sinistro messaggero della peste e il Destino (Der müdeTod di Lang) ci rinchiude dentro un penitenziario dai muri interminabili e obbliga l’uomo-Sisifo a rotolare di secolo on secolo lo stesso masso senza soluzione di continuità, sono però gli evasi dal Gabinetto delle figure di cera (Leni) (…) che instaurano sulla terra il regno della ferocia e le torture descritte dal Marchese de Sade, ed è proprio con Der Golem che si definiscono le sorti funeste dell’umanità, poiché il personaggio di Wegener è non tanto l’androide che libera dai suoi carnefici il popolo ebreo, quanto l’automa che diventa egli stesso tiranno.
Osservazioni queste che sono in definitiva giuste e inoppugnabili se ci si concentra soprattutto sul valore simbolico della figura del Golem e ci si astrae dalla carica di umanità che, nonostante tutto esiste nel personaggio, il quale per il fatto stesso di “essere un automa” non gode in effetti di una vita propria, agisce per conto terzi, e se giunge a una “liberazione” (la ribellione al creatore che cos’è se non un tentativo di liberarsi dal “giogo” della sudditanza? la rivolta è la legge dello schiavo sembrava voler essere per esempio il messaggio veicolato dalla successiva rilettura di Duvivier) lo fa unicamente in funzione di una fatalità, una specie di “predestinazione” che gli incombe addosso come una condanna. E se si pensa che il peso di questa condanna, di questo rifiutarsi all’umanità - eppure di essere partecipe – diventerà proprio uno dei segni distintivi dell’espressionismo cinematografico e derivati, si dovrà convenire allora come – a parte certe evidenti ingenuità e sfasature tecniche – il contributo (e l’importanza) del lavoro di Wegener sia stato tutt’altro che secondario e subordinato, visto che il film non attenua minimamente il pessimismo di una visione così radicale e vede nel Golem chi privilegia l’azione senza preoccuparsi delle conseguenze (che forse non riesce nemmeno a valutare) e arriva ad eseguire la parte assegnatagli, con feroce rigore, persino contro la propria volontà. Il Golem (al pari del contemporaneo e similare Homunculus ) è dunque un personaggio le cui caratteristiche anormali sono presentate come il risultato inevitabile di “anormali origini”. Ma il postulato di tali origini è in realtà un sotterfugio poetico che razionalizza il fatto apparentemente inspiegabile, che questi eroi (o presunti tali) sono o si sentono diversi dai propri simili e vivono tragicamente la loro “disumanità” facendolo diventare quasi un “disadattamento esistenziale”, ed è proprio la modalità con la quale Wegener interpreta sullo schermo la figura della statua che cammina (che indubitabilmente ha avuto una influenza determinante anche sul Frankenstein cinematografico nella versione di James Whale del 1931) a chiarire meglio questo concetto fino a renderlo del tutto palese.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta