Regia di Daniele Ciprì, Franco Maresco vedi scheda film
Nella prima scena, un tizio - che poi si scopre essere San Polifemo - si toglie un occhio. Nella seconda, un uomo sodomizza un ciuco. Che dire di un film che comincia così? Forse soltanto che va visto, possibilmente non durante i pasti. Riguardo a "Lo zio di Brooklyn", per una volta, sono perfettamente d'accordo con Mereghetti, che ne ha magnificamente sintetizzato le qualità dicendo che si tratta del "film più insolito ed estremo del cinema italiano. [...] Ambientato in una periferia palermitana poco abitata e miserrima, «terra di nessuno» né città né campagna, dove si muove un'umanità residuale", fotografato da Luca Bigazzi in un bianco e nero che si richiama al Pasolini di "Accattone", "Mamma Roma" e "Uccellacci e uccellini", rigorosamente interpretato da uomini senza donne, il primo lungometraggio di Ciprì e Maresco si risolve in una serie di quadri slegati tra loro, che sembrano privi di senso, un po' come molte cose che si vedono oggi in televisione o nella vita reale. Alla fine, però, un senso c'è, anche se allo zio di Brooklyn sarà impedito di dire chi sia veramente da una sonora pernacchia. E in più ci sono, seppure marginali, i personaggi di Cinico TV, come il ciclista Tirone al quale, proprio come nel celebre film di De Sica, un ladro ha rubato la bicicletta, o il crudele signor Giordano, che, armato, di chiodi e martello, impedisce un'improbabile resurrezione. E poi c'è il triste uomo in mutande (Miranda), sempre sullo sfondo come un crocefisso tragico, e non manca Paviglianiti che mangia, beve e, al suono del suo proverbiale «certamente!», scorreggia. A mio parere, "Lo zio di Brooklyn" è migliore del "Ritorno di Cagliostro" (2003) e di "Come inguaiammo il cinema italiano" (2004). Ciprì e Maresco offorno una versione divertente della vecchia gag del funerale di corsa proposta da René Clair in "Entr'acte" (1924).
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