Regia di Daniele Ciprì, Franco Maresco vedi scheda film
La famiglia Gemelli è formata dal padre Gaetano (Salvatore Schiera), tre figli (Rosario Carollo,Natale Lauria,Gaspare Marchione) e un nipote che vive su una sedie a rotelle. Il vecchio padre muore e mentre i tre figli ritornano dal funerale vengono avvicinati da due nani (Giuseppe Di Stefano,Ernesto Gattuso) che gli intimano di ospitare a casa loro un vecchio padrino italo-americano, lo zio di Brooklyn (Salvatore Gattuso), un misterioso uomo che non dice una parola. I due mafiosi lo devono nascodere alla vista di don Masino (Pippo Agusta), il capofamiglia della zona con cui sono andati in contrasto e i fratelli Gemelli non possono in alcun modo rifiutarsi di fargli questo favore. Ma la trama è solo un pretesto per dare un minimo di linearità alla grottesca rappresentazione di "un'apocalisse", per cercare di mettere insieme i cocci di un mondo pietrificato dalla perdita di coordinate affettive.
"Lo zio di Brooklyn" rappresenta l'esordio cinematografico di Daniele Ciprì e Franco Maresco dopo l'esperienza di "Cinico tv" e dalla televisione traslano al cinema le loro illuminanti provocazioni visive, sia riproponendo gli stilemi di una poetica unica e inconfondibile che attraverso la presenza di personaggi quali Pietro Giordano, che gira in mutande con un martello e dei chiodi intento a chiudere bare, il ciclista Tirone, a cui viene rubata la bicicletta, Miranda, che se ne sta immobile come un Cristo senza croce e Paviglianti, che mangia, beve, rutta e ripete "certamente". Segni indicatori di un'umanità senza meta e senza più indirizzi, che recita dei rituali imparati a memoria, con l'istintività del corpo e senza l'ausilio della ragione. In una Palermo desertificata, contrappuntata nella sua desolante degradazione urbana da diversi campi lunghi e da un bianco e nero (di Luca Bigazzi) che ne accentua la sgradevolezza, troviamo questi superstiti della fine del mondo, un'umanità ridotta al massimo grado di miseria e di perdita della propria dignità, devastata dalla pervasività del brutto e mascolinizzata dalla continua profanazione del sacro. In balia dello spazio e del tempo, canta spesso, canta sempre, come a volersi orientare in un'ambiente che sembra poter essere ogni spazio e in ogni tempo. "Playboy,playboy,playboy io non sono un playboy. Sono un ragazzo romantico che crede ancora nell'amore, perciò ti dico no ! Playboy, playboy, playboy è quello che ha i soldi, anche se è pelato, grasso, basso, playboy, playboy....., ripete un motivo. Il cinema di Ciprì e Maresco è volutamente svuotato di senso e di contenuto per porsi come l'antitesi migliore possibile di una società votata al culto dell'etica televisiva. All'estetica dell'immagine sostituiscono l'estetizzazione di uno stile che tende ad emanciparsi dalla necessità ricattatoria di cospargere l'opera d'arte di segni rassicuranti e alla finzione del linguaggio televisivo ipocritamente consolatorio oppongono la verità di corpi straziati dal degrado. L'estrema radicalità delle loro posizioni non poteva che produrre pochi film ("Totò che visse due volte", per me, è un autentico capolavoro). Ciò che dovevano dire lo hanno detto benissimo in tre lungometraggi, rappresentando la degenerazione morale e culturale in atto attraverso un percorso artistico di assoluta e pregevole originalità. Un contributo sufficiente e necessario direi, perchè la loro consapevole eresia induce a riflettere sull'apologia del brutto che continua a mettere radici sempre più solide e può servire a porvi rimedio.
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