Regia di Alexandre Moratto vedi scheda film
Cronache d’ordinario sfruttamento. All'opera seconda Moratto rivela un’invidiabile maturità ideologica e, in buona parte, espressiva (considerato il rigore col quale il film viene condotto, mettendo al bando patetismi e facili sensazionalismi).
7 prisioneiros costituisce un in-fraintendibile atto d’accusa di un intero sistema-paese (d’un intero sistema economico) basato sullo sfruttamento para-schiavistico di manodopera proveniente dalla miseria più nera e da sempre privata della pur minima sicurezza sociale, la quale precipita da un inferno all’altro, dall’inferno delle campagne a quello delle metropoli.
Una vicenda circoscritta che si afferma come una perfetta sintesi universale. E nella seconda parte il film si fa sempre più duro e – con una tragica ma necessaria aderenza al vero – pone di fronte lo spettatore ad una metamorfosi che sarà forse difficile da mandar giù, per qualcuno, ma che riesce, in breve tempo, ad infrangere pure l’ultima delle illusioni (segnatamente quella per la quale “l’uomo umile” possiederebbe una sorta d’intrinseca superiorità morale rispetto al padroncino di turno). Sì perché è venuto il tempo di disfarsi anche dei più rassicuranti tra gli stereotipi, intende dirci il regista.
Lì per lì si è portati a chiedersi come si possa – pur provenendo dalla medesima situazione delle proprie vittime – abbassarsi sino al livello di sottoporre ad identiche angherie le stesse, poi il tutto diventa chiaro, lampante: è sufficiente imparare, passo passo, a guardare dall’altra parte, interessarsi soltanto del proprio piccolo tornaconto, adeguarsi all’ideologia dominante dell’“ognuno per sé”; e, pian piano, diviene appunto possibile proseguire nella propria esistenza senza rimorsi, per poi eventualmente andare ad annegare in un mare di alcol quel minimo residuo di coscienza che potrebbe ancora, talvolta, fare la sua transitoria comparsa.
Homo homini lupus… una formula certo inflazionata. E tuttavia sempre attuale. La dura legge della sopravvivenza (del proprio piccolo nucleo a spese degli altri, sino al grado minimo, atomistico, della propria persona) trasportata dalle infinite distese del paleolitico al dedalo di vicoli e boulevard delle metropoli odierne.
E chi sarà mai il più adatto a “trionfare” in un sistema simile? Semplice: il più spietato, il più cinico, il più privo di scrupoli, il più indifferente sul piano emotivo; colui che impara ad esserlo. Ma sopravvivere è la parola chiave: si può definire “vivere”? No, infatti, ma trascinarsi attraverso l’esistenza. Accettando fatalisticamente una condizione moralmente abietta, quasi bastasse riderci sopra in una serata al bar (e questo, tristemente, vale anche per i più poveri, ai quali è stato insegnato, viceversa, ad accettare con fatalismo una condizione disumana insopportabile).
Ed ecco lo scoglio contro il quale infine s’infrange ogni rivoluzione: nel ritorno al basso, piccolo interesse di parte; alla lotta per l’ultimo tozzo di pane; alla sbornia del potere, sia pur anche il più esile dei poteri: l’elevarsi appena un gradino sopra, con la gioia di calpestare coi propri scarponi chi invece ha avuto la sfortuna di rimanere di sotto, nel pantano. Appunto: che ognuno pensi per sé e che non se ne parli più.
Rimane giusto la possibilità di “consolarsi” con la flebile promessa d’un oltretomba paradisiaco ove intervenga infine la più pia felicità a premiare chi ha vissuto nella disgrazia sulla terra. Nel frattempo, nel mondo reale, il sistema continua a macinare, imperterrito quanto i suoi facilitatori (“Come sono arrivati qui?”, chiede ad un tratto Mateus a Luca riferendosi ai migranti; risposta: “In aereo, in autobus, in nave. Come tutto ciò che si compra”; Mateus: “Ce ne sono molti?” – Luca: “Abbastanza per far funzionare questa città”).
Un pugno nello stomaco, 7 prisioneiros. Probabilmente non dice nulla di nuovo, ma senza dubbio evita scorciatoie e trappole troppo artificialmente assolutorie o confortanti, e fa mostra, come già detto, di un’ammirabile aderenza al vero che – con tutti i dovuti distinguo – par quasi guardare al neorealismo.
Abbastanza convincente il protagonista, affiancato da un fin inquietante Santoro nei panni del “senhor Luca”. E di nuovo: sicura la mano del regista, autore anche della serratissima sceneggiatura (con T. Mantesso), capace di evitare inutili divagazioni e di tenere letteralmente col fiato sospeso, costruendo abilmente un potente crescendo, una suspense da groppo alla gola.
Un’ottima proposta “originale” Netflix, che ha il merito d’aver scommesso, ancora una volta, su un qualcosa di diverso, lontano anni luce dai soliti iper-pubblicizzati prodotti.
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