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Placido Rizzotto

Regia di Pasquale Scimeca vedi scheda film

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La recensione su Placido Rizzotto

di giammaz
8 stelle

Un film di impegno civile che supera le modalità neorealistiche e quelle del documentario di denuncia in una cornice che assume la forma del mito dove i personaggi diventano figure etiche simbolicamente esemplari richiamando ora la tragedia greca ora la sacra rappresentazione popolare.

Il giovane contadino corre nell’inutile speranza di ostacolare l’arresto del padre Carmelo, piccolo “gabellotto” del feudo Drago (D. Dolci, Spreco, Einaudi, Torino, 1960, p. 167); corre il partigiano della Carnia nel tentativo tardivo di impedire un ultimo gratuito eccidio nazista; più pacata e distesa la corsa dei contadini che, sotto la guida del sindacalista socialista, occupano le terre incolte dei latifondisti. Una vita intensa e breve quella di Placido Rizzotto che terminerà la sera del 10 marzo 1948, gettato in una “ciacca” della campagna di Corleone. Il corpo sparirà per sempre; i pochi indumenti ritrovati giacciono ancora oggi in un sotterraneo del palazzo di giustizia di Palermo.

Da questa vita,  ricostruita da Dino Paternostro (Placido Rizzotto, il sogno spezzato, Adarte, Palermo, 2000) il regista siciliano Pasquale Scimeca ha trattoun film duro (Italia, 2000), generoso, atipico e, soprattutto, “civile”. Non è facile riproporre all'alba del terzo millennio un film di formazione civile e, tantomeno, su di un tema (la mafia) filmicamente abusato.

La struttura narrativa nel neorealismo del dopoguerra era perlopiù incentrata sulla simmetria fra la storia dell’eroe (popolare) e la Storia; la vicenda individuale confluiva nella visione della grande Storia dove altri, con le stesse bandiere, ne avrebbero raccolto l’eredità. Il cinema politico e civile degli anni successivi ha oscillato tra la denuncia drammatica, evoluzione politica del documentario, e la riproposizione, con nuovi scenari e soggetti, della struttura neorealista. Con l’esaurirsi della visione storicistico progressiva della Storia, in un contesto politico del tutto diverso,  il genere si era ormai esaurito.

Il tentativo di Scimeca ha costituito una  novità e, al di là di toni naif che richiamano filmografie non occidentali, tutt’altro che elementare.

La cornice narrativa è quella di un cantastorie che si rivolge ad un ridottissimo pubblico; i suoi riquadri illustrati segnano le tappe (le sequenze), temporalmente discontinue, della vita e morte del protagonista. Ci accorgiamo, ad un certo punto che l’attore-cantastorie è lo stesso (Carmelo di Mazzarelli) che impersona il padre di Placido: l’ex mafioso che assumerà su di sé il compito della memoria e la rivendicazione di giustizia per la morte del figlio.

La cornice si presenta così sotto la forma del mito e i personaggi diventano figure etiche simbolicamente esemplari richiamando ora la tragedia greca ora la sacra rappresentazione popolare.

Rizzotto è il sacrificio: il simbolismo più che esplicito è esasperato: rivede il paese all’ombra di una enorme Croce di legno; qui ancora si ritrova con Lia; la sera della sua scomparsa una sacra rappresentazione della Passione anticipa la fine di una vita breve che non può che concludersi … a trentatré anni … in un sepolcro vuoto…

Lia: la fedeltà che non potrà rimaner tale se non abbandonando per sempre la propria terra.

Lo “sciancato” (Luciano Liggio): il male nella forma più odiosa di viscida brutalità.

Il giovane pastore, testimone involontario (sembra uscito direttamente da un film di Pasolini): l’innocenza. E così via.

Altri quadri della narrazione si allargano però ad una più rigorosa ricostruzione storica: dai conflitti sociali e sindacali, che si presentano in primo luogo come conflitti interiori fra opzioni di valore e successivamente come frattura fra generazioni, sino alle minuziose indagini del giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ci troviamo di fronte ad una “microstoria” che esplicitamente ci proietta non solo verso altre innumerevoli microstorie del tutto analoghe (il regista all’inizio ci aveva avvertito che solo casualmente la terra di cui si narrava era terra di Sicilia: avrebbe potuto esserlo di qualsiasi altra parte del mondo), ma che soprattutto ci rimanda direttamente al presente.

Il cantastorie che, dopo aver illustrato l’ultima scena in cui Dalla Chiesa e Pio La Torre si stringono la mano, rimasto solo, si immerge sconsolato la testa nelle mani, parla silenziosamente del dopo e dell’oggi, del destino tragico di quei personaggi, della continuità e delle trasformazioni del potere mafioso.

Non ci dà nessun insegnamento, né tanto meno sventola bandiere. L’azione raccontata si è conclusa e non mostra visibili eredi, non si è incolonnata in nessun vittorioso progresso. Eppure parla, parla talmente forte che lo spettatore rimane inchiodato: si sente richiamato alle proprie personali responsabilità, sente il bisogno di interrogarsi e di esprimersi con un chiaro giudizio etico.

Una formazione civile che pertanto non proietta più ad un diretto (e talora univoco) impegno, ma che passa prioritariamente attraverso la maturazione etica, e pertanto civile e politica, del proprio giudizio.

Le diverse microstorie possono allora fra loro collegarsi al di là delle fratture dello spazio e del tempo. Ci piace ricordare che, subito dopo la morte di Rizzotto e prima che a Corleone arrivasse il giovane Pio La Torre, a sostenere la Camera del Lavoro, nei giorni infuocati delle elezioni del ’48, si prodigò un altro partigiano, il novarese Vermicelli che, della Sicilia di quegli anni, ci ha lasciato alcune pagine eticamente e politicamente indimenticabili (G. Vermicelli, Babeuf, Togliatti e gli altri, Tararà, Verbania, 2000, pp. 154 – 170, 205 – 216).

Ultima annotazione, le ossa di Rizzotto sono state ritrovate nel 2009 appunto in una "ciacca" (una foiba) e riconosciute nel 2012 con il test del DNA confrontato con quello tratto dalla tomba del padre. Il 24 maggio 2012 i resti di Placido Rizzotto sono stati sepolti con funerali di Stato nella tomba di famiglia.

 

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