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In the Mood for Love

Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su In the Mood for Love

di pippus
10 stelle

Raramente nel cinema si sono viste immagini così legate alla poesia.

“Hyeme et aestate, et prope et procul, usque dum vivam et ultra”

 

(Inverno ed estate, vicino e lontano, finché vivrò e oltre)

 

 

La frase latina - opportunamente tradotta in cantonese - riflette le parole sussurrate da Chow nella parete del tempio khmer di Angkor Wat!

Qualche dubbio? Eh, più che giustificato. In verità potrebbero essere parole oltremodo azzeccate, ma sono riprese dal “Daniele Cortis” di Fogazzaro, il quale, a sua volta, pare le avesse mutuate da un’antica colonna prelevata dalle terme di Caracalla. Ma del Cortis (e non solo) accennerò più avanti, al momento focalizzerei l’attenzione sull’opera di Wong kar Way, senza dubbio uno dei più bei film che mi sia mai capitato di vedere.

In due giorni ho assistito a due proiezioni in versione originale: nel corso della prima ho così potuto prestare massima attenzione ai sottotitoli, per focalizzarmi sulle sole immagini nel corso della seconda. Scelta rivelatasi particolarmente opportuna con l’opera in oggetto.

La trama la demanderei alla scheda del film, in modo da rivolgere senza indugio l’attenzione sugli aspetti diretti e, ancor più, su quelli indiretti ma consequenziali alle dinamiche comportamentali dei protagonisti.

Filo conduttore è la storia d’amore tra due persone (Chow e Su) sorta in seguito a un’altra storia d’amore, quella tra la moglie di Chow e il marito di Su. Peculiare ne sarà l’evoluzione fino all’epilogo, e tale evoluzione sarà oggetto dell’analisi.

 

Il titolo: la traduzione alla lettera indicherebbe “In vena d’amore”, quasi a designare una predisposizione per l’avventura amorosa da parte dei protagonisti. Questa interpretazione potrebbe non essere totalmente irragionevole, ma quella che sarebbe dovuta essere la traduzione del titolo originale “L’età della fioritura” è ancor più in linea con il romanzo breve “Un incontro”, dal quale il film è tratto.

Interessante apprendere che l’intenzione del progetto iniziale prevedeva una serie di episodi, dopodichè, solo in corso d’opera prevalse l’idea un unico lungometraggio.

Quello di Wong lo potremmo quindi considerare un capolavoro imprevisto!

 

    Premessa

In questo eccelso lavoro del grande regista potrebbe non essere così inverosimile un velato interrogativo.

Vale a dire, è sempre opportuno desistere a priori in nome di un’etica vaga e incerta che a volte potrebbe portarci al nulla? Il senso della vita è, e rimarrà, il quesito primario e noi, deboli esseri mortali, con le nostre azioni/opzioni tentiamo di agire possibilmente per il meglio. Il problema consiste nel fatto che, purtroppo, non sempre questo presunto "meglio" collima con il giusto.

 

Peraltro, da sempre nell’universo dei capolavori letterari le vicende sentimentali orbitano in massa attorno alla tragedia centrale.

Se questo requisito venisse meno, di certo si verserebbero meno lacrime, ma di pari passo lo stesso universo verserebbe rapidamente nell’anonimato, seguìto poco dopo da un repentino e inevitabile oblìo totale.

Per averne la prova è sufficiente soffermarsi un attimo e immaginare Orfeo che, euforico, esce dagli inferi con Euridice; oppure Tristano che esultante convola a nozze con Isotta; Eloisa che prepara orgogliosa una cenetta intima per il suo Abelardo; o ancora, per concludere in bellezza, Romeo che, finalmente raggiante, gongola tra le braccia di Giulietta! Mmmh, temo risulterebbero tutti poco convincenti.

Oltre agli amori letterari anche il cinema non manca di esempi, mi sovvengono alcuni titoli: “I Ponti di Madison County” di Eastwood e “La signora della porta accanto” di Truffaut, entrambi con un epilogo di rinuncia, ma il secondo nettamente più tragico del primo. Non così per “Destini Incrociati” di Pollack, dove il finale è meno drammatico, ma anche l’aspetto etico è nettamente diverso (direi più simile al film di Wong, ma l’argomento meriterà alcune considerazioni a parte).

 

     Qualche riverbero (iniziando dal fondo)

Seconda proiezione: in chiusura rimango ipnotizzato dagli ideogrammi bianchi che, scorrendo su sfondo rosso, formano un perfetto connubio con i violini di Shigeru Umebayashi in sottofondo (ma approfondirò più avanti). Quando si accendono le luci esco ancor più depresso di due giorni prima (e non è la prima volta che mi capita, anche su tematiche ben diverse dalle sentimentali, più è intensa la frustrazione e più il film si rivelerà un capolavoro nelle successive riflessioni). Nel caso specifico mi sono consolato pensando che i protagonisti sono ancora giovani, e se il finale non è stato confortante, pazienza, potrebbe esserlo un eventuale prosieguo a noi ignoto.

Lui si chiama Chow e lei Su. Sono loro che terranno viva l’attenzione. Gli altri due comprimari non vengono mai ripresi frontalmente: si vedono a volte di spalle, si sentono le loro voci ma, chicca registica, non ne vedremo mai il volto. Per contro si affacciano sulla scena altre figure di secondo piano opportune e necessarie al contesto della sceneggiatura: tra queste, oltre al simpatico Ping amico di Chow, un posto di riguardo è riservato alla signora Suen, gentile ma un tantino invadente padrona di casa di Su, nonché accanita giocatrice di mahjong.

 

    Il senso di soffocamento

A parte le toccanti sequenze finali girate nel monastero khmer (alle quali dedicherò la dovuta attenzione più avanti), tutta l’opera è immersa in un claustrofobico e crepuscolare fluido.

Più che in una Hong Kong anni 60, le strette viuzze mal illuminate ci riportano in un qualche paesino alsaziano del primo dopoguerra (lo stesso Wong rivelò che, non trovando più una location adatta nella H.K. del 2000 - anno di realizzazione del film - per le sequenze esterne si vide costretto a trasferire l’intera troupe a Bangkok). Il condominio, primo teatro della vicenda e relative prime furtive occhiate, è caratterizzato da strette scale, e ancor più stretti corridoi atti a esaltare la sinuosa flessibilità di Su quotidianamente avvolta in quelli che parrebbero una seconda pelle, ossia abiti tutti diversi nella fantasia ma identici nella loro seducente foggia. Le parti comuni dell’immobile sono quanto di più impensabile potremmo immaginare, talmente anguste e fievolmente illuminate da rendere inevitabile lo struscìo – non esente da intima emozione per entrambi - degli abiti di lei contro quelli di lui. Il tutto in una decadente fatiscenza di muri scrostati e tubi a vista, quasi a enfatizzare il contrasto con la divina e seducente figura della protagonista. La mdp sovente si sofferma in magistrali step di quasi macrocinematografia: dagli eleganti tacchi a spillo al secondo piatto servito nel ristorante, tutto con l’intento di esaltare particolari che poi risulteranno tali solo parzialmente in quanto partecipi, in egual misura con il resto, nel coinvolgere sempre più lo spettatore nell’insolito e poco convenzionale contesto. E in questo compito alcune sequenze sono coadiuvate in maniera superlativa dal sonoro, un sonoro che non si riduce a classica “colonna sonora” (compito pur essenziale riservato agli eccelsi brani di Nat King Cole e di Michael Galasso), ma un impeccabile amalgama, una specie di intesa unica tra i sensi di vista e udito ottenuta mixando le celestiali note del compositore giapponese Shigeru Umebayashi (https://www.youtube.com/watch?v=CydoHnlWpEI) con superbe e toccanti sequenze, talvolta al ralenti, una tecnica che di rado nella settima arte risulta così calzante. Ne deriva un coinvolgimento magistrale per lo spettatore, frammisto tra la commozione e la velleitaria speranza di un confortante epilogo!

Maggie Cheung

In the Mood for Love (2000): Maggie Cheung

 

     Loro due

Chow è certamente persona temperante e di bella presenza; giornalista e scrittore dai modi garbati e distinti in quel suo look sobrio, forse un po’ monotono, ma sempre raffinato.

Per Su, dato l’attuale status, non penso sarebbe stato facile restarne indifferente .

Ma ancor più non poteva rimanere indifferente lui.

Eh, ci mancherebbe, Chow ha tutta la mia comprensione! Il viso di lei, la flessuosa silhouette a partire dalla sottile e gradevole acconciatura fino alle affusolate caviglie esaltate dai già citati tacchi a spillo.

Un insieme in grado di sedurre istantaneamente qualsiasi uomo.

Se poi consideriamo il contesto di commistione tra il palesarsi della realtà (la relazione tra i loro relativi partner) e la promiscuità quasi forzata delle “relazioni condominiali” a base di pasti frugali, taluni collettivi e talaltri in coppia, serate ludiche in compagnia e quant’altro… gli ingredienti ci sono tutti e il “piatto” è, o potrebbe, essere servito!

 

    Un paio di romanzi

Tra le varie letture me ne vengono in mente due per grado - variabile - di attinenza.

Si tratta del “Daniele Cortis” di Fogazzaro e del celeberrimo “Le Affinità Elettive” di Goethe.

Il primo è forse il meno affine trattandosi di vicenda con soli tre protagonisti, mentre le traversie del secondo potrebbero stimolare, con le dovute riserve, le stesse considerazioni inerenti al film.

 

Per un po’ di chiarezza, una dovuta  “sintesi di estratto di stralcio di sinossi”:

il Daniele di Fogazzaro, persona limpida e impeccabile, celibe senatore del Regno, è innamorato – ricambiato - di sua cugina Elena. Purtroppo costei, per un errore di gioventù, si era a suo tempo maritata col barone Di Santa Giulia, individuo inaffidabile e talvolta alquanto meschino.

Dato il contesto storico dell’epoca (in particolare in ambito aristocratico quale essi si trovano) la relazione tra Elena e Daniele rimarrà platonica e, purtroppo, conseguentemente alla pregressa situazione, i due non riterranno possibile una soluzione diversa da un sofferto e tribolato addio (a questo è dovuta l’iniziale citazione latina).

Diversa la situazione venutasi a creare nelle pagine di Goethe.

I suoi personaggi, da un lato la coppia originaria formata da Eduard e Charlotte, e dall’altro la coppia new entry formata dal capitano e Ottilie, potrebbero potenzialmente prendere “accordi” magari non troppo ortodossi per i tempi, comunque esenti da tradimenti o “danni collaterali” nei confronti di terzi. Così non è andata ovviamente e, complice forse un eccessivo riguardo per gli altrui commenti associato a un innato senso etico dettato dalle consuetudini, il finale non poteva essere più tragico. Di un tragico in percentuale superiore a quanto il lettore potrebbe pronosticare nel corso della lettura (ma non lo rivelo per riguardo verso i lettori che potrebbero non conoscere il libro).

 

Già, l’Etica, quella con la E maiuscola, che non sia sempre eticamente opportuna? Collateralmente al film potrebbe essere interessante qualche riflessione.

E riflettendo sulle situazioni non mi sfugge un particolare: in tutte e tre i protagonisti maschili risulterebbero maggiormente “tolleranti”, meno soggetti alle remore che invece parrebbero prerogativa dei soggetti femminili.

Chow, Daniele e Eduard (meno determinato forse il capitano) avrebbero certamente optato per la soluzione meno sofferta.

Scelta sicuramente meno meditata e maggiormente impulsiva, esente da eccessivi patemi – come peraltro sono soliti fare gli uomini in tema di sentimenti - ma le loro innamorate, per natura più inclini alla riflessione e conseguentemente alla sofferenza, pur non esenti da dubbi, hanno infine deciso altrimenti. Quindi, poche gioie e molti dolori!

Dolori sempre giustificati? Come accennato, l’epilogo del film potrebbe veicolare un velato input per indurci a pensare e ponderare.

 

    Mi permetto qualche divagazione, forse a sproposito, ma spero non inutile.

Sono solo ipotesi, ma si potrebbe arguire un messaggio volto alla scelta, talvolta più opportuna, di non lasciarsi condizionare dalle altrui opinioni che non di rado rendono il confine tra etica e ipocrisia confuso e labile. Su riferisce a Chow che quel mattino la signora Suen, come sappiamo simpatica ma un po’ invadente, “ le ha fatto la predica”. L’anziana non è al corrente della situazione attuale e, men che meno, pregressa (gli “altri”due), ma le sue parole hanno colpito l’animo sensibile di Su condizionandone comunque la condotta.

Nell’indubbia drammaticità del finale, con la razionalità del senno di poi - ma ancor prima anche di Chow -, non possiamo non notare quanto sia stato deleterio il non aver optato per quel carpe diem che, non solo non sarebbe stato “politically incorrect” (data l’altrui tresca a monte), ma, come più oltre riporterò, si sarebbe addirittura potuta rivelare una scelta eticamente plausibile che avrebbe evitato non pochi patemi ai due protagonisti, prima traditi e poi lasciati.

L’epilogo che ci è dato vedere – almeno fino a quel momento - è sicuramente consolatorio per i loro partner - che troppe remore pare non le avessero avute -; molto meno roseo per Su e Chow: entrambi si ritrovano soli e abbandonati, e lei per di più con un figlio.

Figlio del quale, probabilmente per voluta scelta registica, non ci è dato conoscere la paternità, dacché in nessuna sequenza assistiamo tra i due a effusioni che vadano oltre la mano nella mano, e questo ci indurrebbe a ritenere la loro una relazione esclusivamente platonica (forse).

 

    Cogitatio extravagans.

Non sempre le affinità elettive risultano essere ottimali col partner scelto. A volte succede di conoscere successivamente qualcuno con il quale tali affinità evidenziano livelli superiori. Il problema nasce quando - come nel caso di Chow e Su - capita che sia il partner a trovare qualcuno con maggiori affinità nei suoi confronti, o quantomeno questo è ciò che il soggetto presume sul momento.

 

La morale esige da Su la frase: “non dobbiamo essere come loro”. Però, conseguentemente, questi “loro”, alludendo ai due partner fedifraghi, hanno messo in atto strategie le cui conseguenze ricadranno necessariamente su di lei e su Chow. E questo potrebbe essere oggetto di discussione filosofica. A questo proposito:

 

   Un paio di pareri “leggermente” più autorevoli del mio

Socrate, universalmente considerato il padre della filosofia morale, come si esprimerebbe in merito? Direbbe che ognuno deve provvedere da sé alla propria eticità in base alla propria “autocoscienza”. Quella stessa autocoscienza che, di fronte al tribunale che lo stava inquisendo, gli fece pronunciare le parole: “O’ cittadini ateniesi, io vi sono grato e vi voglio bene, però ubbidirò più a Dio che a voi!” La sua filosofia morale derivava dal famoso “Conosci te stesso” che troneggiava sul tempio di Delfi, ne consegue quindi che l’individuo deve continuamente studiare per giungere a un’autocoscienza che gli permetta (oltre che di sapere di non sapere) di rispettare un’etica esente da ipocrisie e pettegolezzi (vedi la predica della signora Suen a sua volta dettata da ipocrite e castranti tradizioni), un’etica esclusivamente dovuta a ciò che l’individuo stesso ritiene giusto per sé ma senza danno per gli altri, sempre nel rispetto della massima socratica che recita: “è meglio subire un’ingiustizia che commetterla”.

Potremmo considerare l’etica Socratica affine all’imperativo categorico dell’etica kantiana, e in ultimo riassumerle in un’unica etica dei princìpi.

E quest’ultima è stata certamente l’origine delle remore - e delle lacrime - non solo di Chow e Su, ma anche dei protagonisti dei due romanzi di cui sopra.

Ma c’è una seconda teoria sull’argomento, più possibilista, forse più “moderna” e anche più innovativa: alludo a “L’Etica della responsabilità” del filosofo tedesco Max Weber.

Weber, nel suo saggio del 1916 “Tra due leggi”, in breve suddivide l’etica dei principi assoluti dall’etica della responsabilità, ovvero

(sintetizzando alla grande), se la prima agisce a prescindere dalle conseguenze, la seconda, al contrario, agisce proprio tenendo conto del rapporto tra i mezzi (o fini) e le conseguenze. Si tratta quindi di due etiche antitetiche in totale contrasto tra loro.

L’etica della responsabilità agisce non solo tenendo conto delle conseguenze ma, potremmo dire, le conseguenze sono il fine del suo agire.

Al netto di eventuali dogmi religiosi, stando a Weber, Su non avrebbe dovuto avere tentennamenti di fronte alla proposta di Chow, in quanto le conseguenze non potevano che essere positive per tutti: per loro in primis, per il figlio, e persino per i loro partner la cui coscienza avrebbe potuto, in tal modo, godere di un’immeritata successiva consolatio.

 

    “Elucubrazione” dal vocabolario Treccani: “Lavoro meditato ed elaborato ma che…non approda a nulla!” Eh si, purtroppo in questa definizione rientrano tutte, comprese le mie di cui sopra!

Di fatto Wong ci propone ciò che vediamo sullo schermo, e a questo dovremmo attenerci. A parziale giustificazione delle elucubrazioni esposte, ripeto, non possiamo escludere da parte della regia l’intento volto a stimolarle; una di queste ce la propone più esplicitamente in quasi chiusura catapultandoci in Cambogia, in un sito alieno fuori da tutto e in mezzo al nulla; una delle rare, forse l’unica, sequenza diurna in esterno.

Al riguardo nessun accenno per lo spettatore, ma chi lo conosce (tra l’altro dal 1992 patrimonio Unesco) intuisce trattarsi di Angkor Wat, tempio khmer del dodicesimo secolo, a quanto pare il più grande edificio religioso al mondo (1,5 x 1,3 chilometri).

Qui si ha la sensazione che il tempo si sia fermato, esattamente come per Chow e Su. Ad Angkor Wat si è fermato da qualche secolo, per Chow e Su invece si è fermato nella stanza 2046; un tempo non lontano, ma percepibile come “attraverso un vetro impolverato, qualcosa che si può ancora riconoscere seppur ormai sbiadito” .

Di fronte rimane un tempo altro, quello di una dimensione permeata di quell’inevitabile invecchiamento intriso di un amaro senso di privazione.

E’ questa che ha spinto Chow a recarsi in questo luogo sacro e, nel corso della muta sequenza, sussurrare il suo segreto all’eternità: usque dum vivam et ultra!

                                         

 

 

    Regista particolare Wong Kar-wai, non ho visto altre sue opere, ma questa mi è stata sufficiente per conoscere la sua mano garbata ancorché coadiuvata da un sottile senso del sentimento. Il suo saper esteriorizzare la delicatezza di alcuni momenti senza dover ricorrere al dialogo. Potrebbe evocare Bresson e Truffaut. Ancor più alcune peculiarità, come il soffermarsi sui particolari, sugli oggetti, sul fumo di sigaretta, oppure più volte sullo stesso angolo di strada, rivelano l’ispirazione al nostro Michelangelo Antonioni (in particolare da “L’Eclisse” e, per le dissolvenze in nero, anche da “L’Avventura”).

Le sinfonie di Shigeru Umebayashi, come già sottolineato, sono imprescindibili; e mentre la suadente voce di Nat superbamente si limita ad accompagnare le immagini, le prime se ne appropriano letteralmente.

La fotografia e le peculiari scenografie concorrono in maniera essenziale nel coinvolgere la platea e, innegabilmente, a questi due fondamentali aspetti è delegato il phatos della pellicola.

E che dire di Tony Leung e di Maggie Cheung nei rispettivi ruoli di Chow e Su? Senza dubbio superlativi nelle loro parti, non potrei pensare a qualcuno di più adatto (lui è rientrato da Cannes con una statuetta). Se poi dovessi esprimere un parere sul loro aspetto: Tony, come già accennato, credo sia decisamente un bel tipo; per Maggie avrei invece una certezza, ma la lascio alla vostra immaginazione.

 

 

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