Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film
Sguardo. Messe di gesti abbozzati e lieve increspare di labbra. Motivi floreali avvizziscono nell’attesa, sfioriscono sugli arredi, sui vestiti fascianti di corpi attraenti. Nascosti. Celati allo sguardo, il nostro come il loro, il loro amore, lo sguardo è celato e solo le voci dicono che qualcosa esiste, ma è un inganno. Lo sguardo no, non inganna, ogni increspatura di labbra e piccoli gesti abbozzati che la voce non tradisce. Tradisce l’assenza che si fa corpo il vuoto che prende il posto di un marito o una moglie. La distanza che accorcia in un pensiero grazie ad oggetti feticci di colpe, prove di inganni che colmano i vuoti e spandono nella loro ottusa materia immota, nel loro occupare diligentemente uno spazio pieno di significati, l’odore acre della vergogna. Nel rigore della vita codificata ingombra di corpi, due metà orfane cercano di comprendere e plasmarsi per aderire l’uno all’altra, modificando quello spazio che occupano in modo da renderlo proprio.
Domande. Come è iniziata? Il dolore è reciproco, come è potuto iniziare il tradimento quando lo spazio da dividere è così poco? Quale alchimia ha prodotto l’inganno in grado da renderlo invisibile ai sensi? Alla fiducia? Perché noi? Il viso smarrito nel riconoscere nell’altro il nostro stesso sgomento e scoprirlo familiare. Scambio. Proviamo, proviamo a sentire con altri sensi, altri gusti, altre sensazioni. Provare il gusto dell’assenza per capire cosa mancasse, riempire quelle forme vuote di un senso che ne alleggerisca il peso dell’irrazionale verità che si è venuta a creare, dare un corpo a quelle voci. Lo scambio emotivo, le prove dedicate a esorcizzare i fantasmi di una situazione che non si comprende appieno e abbisogna di una concreta elaborazione del dolore per essere interiorizzata. Dolore che non ha avuto tempo di esteriorizzarsi, ingannato dal sotterfugio è rimasto sotto pelle macerando domande su domande, imprigionando le emozioni in una corolla di petali da sfogliare uno ad uno nella dolcezza del rispetto, nel rispetto della comprensione, nella comprensione del dolore. Bellezza. Bello, aggettivo vituperato per la sua genericità, che acquista invece specifica valenza accoppiato all’oggetto da definire, semplice come sono di bellezza assoluta le cose semplici. La bellezza di Maggie Cheung è mortificante, la bellezza delle immagini è stordente nell’asciuttezza della messa in scena, nella luce che prende corpo e si fonde come una seconda pelle ai corpi stessi diventandone anima e pelle, vestito e divisa. Due corpi che si sfiorano, che provano i rispettivi confini, che si misurano complici e confidenti, che sondano le rispettive anime e rispettano i desideri, lasciandoli fiorire. Noi non siamo come loro. L’assenza ritorna ad essere cardine nella mancanza di contatto tra corpi esattamente come il contatto di corpi assenti dei rispettivi amori traditi. L’amore è nell’unicità del sentimento e non nella replica di un inganno. La leggenda protegge il dono del segreto, un tempio che custodisce segreti ancestrali, un foro nella roccia colmato di un sentimento, il vuoto finalmente riempito. C’è più di un modo per dire “ti amo”. Capolavoro.
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