Regia di Aleksey Chupov, Natasha Merkulova vedi scheda film
Il capitan Volkonogov diserta il gruppo di militari di cui fa parte, una comunità dedita all’esercizio della forza e della coercizione. Ma fuori troverà morte, redenzione e tantissimi strambi nemici. Perché è sulla scia di una tradizione “grottesca” tutta russa che il film di Chupov e Merkulova (già in Orizzonti a Venezia 2018) gioca le sue carte, per descrivere un mondo confuso che ospita suo malgrado il vagare evasivo di Volkonogov. E si dice grottesco perché il film la butta fin da subito in chiave quasi surrealista, con la partita di pallone ostacolata dal lampadario e gli allenamenti e le torture asettiche e brutali della sua base.
Vittima di questo luogo chiuso e gerarchico, in cui la sopraffazione sovrasta la meritocrazia, Volkonogov trova fuori un mondo folle e senza senso che non capisce, in cui si può resuscitare e in cui chiunque è in grado di mentire. Ma è la deformazione inevitabile se qualunque azione è dettata unicamente dall’essere amici o nemici dello Stato, dal poter avere solo una colpa o un desiderio di rivalsa. E i due registi usano davvero la città di Volkonogov come murales su cui dipingere la coscienza collettiva della Russia (come avviene con il “murales composito” su più livelli che Volkonogov attraversa), immaginando una sorta di “Paradiso può attendere” in salsa sovietica. Sembra di guardare una parodia dei film DAU, o comunque certamente un esercizio di vago cinismo, perché Chupov e Merkulova non hanno intenzione di chiarire su cosa vogliano puntare i riflettori: è forse una parodia stessa del binomio Bene-Male (a cui costringe, sembrano volerci dire, qualsiasi regime totalitario) o una giostra senza senso in cui lo sforzo stesso di qualsiasi impeto politico è vano?
Un esercizio di flanêrie compiaciuto che riserva qualche gioia e qualche luce a sprazzi episodici.
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