Regia di Aleksey Chupov, Natasha Merkulova vedi scheda film
Venezia 78. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Quando Iosif Vissarionovic Džugašvili soffriva di stipsi ci voleva l'effetto lassativo e rigenerante di una "purga" per tornare come nuovo e sfoderare quel sorrisetto sornione e quell'aria soddisfatta da leader supremo di tutte le Russie sovietiche e socialiste. Negli anni 30 i mal di pancia del capo del PCUS furono talmente frequenti da lasciare un forte imprinting sul decennio che oggi ricordiamo, non a caso, come il periodo delle "grandi purghe" o del "terrore". In quegli anni quattro grandi processi si susseguirono (tra il 36 e il 38) ponendo fine alla vita di molti personaggi influenti del Partito Comunista, dell'esercito e della società civile. Le accuse, sempre e fatalmente dimostrate, erano quelle di cospirazione nei confronti della Patria, alias il partito, alias il suo venerabile Koba. Stalin non ebbe pietà per nessuno e si sbarazzò di intellettuali, scienziati, membri dell'esercito di qualunque ordine e grado. Si dimostrò feroce con gli oppositori e persino con i suoi più fidi collaboratori. Bastava la soffiata di un vicino, quella di un collega o la firma dello stesso dittatore che fu molto generoso nell'elargire la propria benedizione insieme al sigillo della condanna. L'epurazione arrivava tramite pena di morte, confino o esilio. Molto più spesso si spariva e basta. Dal punto di vista politico le purghe staliniste erano giustificate dal malcontento che circolava nel paese, causato dalla fame che aveva colpito il ceto contadino privato della terra concessa ai tempi di Lenin. Un malcontento che si irradiava, tanto in campagna quanto in città, a tutti i ceti sociali, stremati dalla mancanza di derrate alimentari, dal carovita e dalle durissime condizioni di lavoro nelle fabbriche. I piani di Vladimir Il'ic Ul'janov non erano mai piaciuti a Stalin che li considerava fin troppo liberali, così nel formulare il suo piano quinquennale di sviluppo industriale pensò bene di privare i contadini della terra, quella concessa dai NEP, e di calmierare, ulteriormente al ribasso, i prezzi delle derrate. Di fatto gli agricoltori tornarono ad essere i servi della gleba che erano stati durante il regno dei Romanov. Erano diventati schiavi dello Stato che aveva colletivizzato la terra, dichiarato guerra ai kulaki e requisito il grano per pochi soldi impedendo ai contadini di vendere il surplus produttivo in regime di libero scambio. Nelle mani del potere centrale, il grano era diventato moneta di acquisto per sviluppare l'industria pesante che stava al centro dei piani di sviluppo elaborati da Stalin per rendere la Russia una potenza mondiale. Le carestie, le deportazioni dei contadini, che arrivarono ad uccidere il bestiame e bruciare le derrate piuttosto che consegnarle allo Stato, enfatizzarono il pensiero anti-stalinista creando perciò i presupposti per la durissima repressione del dittatore che affidava a vari organi di controllo e implementazione il compito di fare piazza pulita degli oppositori del regime. Tra questi un ruolo importante ebbe il commissariato del popolo per gli affari interni, altrimenti detto NKVD che arrestava, torturava e otteneva confessioni prima di procedere a sommarie esecuzioni. Ma nemmeno gli agenti dell'NKVD erano al sicuro dentro le loro impeccabili uniformi rosse. Era bastato il suicidio del comandante perché Fedor Volkonogov finisse dalla parte opposta della barricata e venisse considerato un nemico del popolo. Era caduto in disgrazia a causa dell'innoportuno tormento del suo superiore di fronte alle reiterate ingiustizie commesse in nome del popolo russo. Non c'erano alternative al suicidio per Fedor Volkonogov ma la sua indole aveva richiesto di lottare. Volkonogov era dunque scappato con lo scopo di redimere la propria anima sporca del sangue dei cittadini innocenti. Il suo amico e compagno di merende Veretennikov lo aveva avvertito che l'inferno era come la Russia e solo il pentimento ed il perdono lo avrebbero salvato dalla dannazione perpetua. Braccato da coloro che erano stati i propri colleghi Volkonogov era scappato alla ricerca di quel perdono invocato dal compagno, quello che Veretennikov non aveva fatto a tempo a chiedere per sé. Solo i famigliari delle vittime potevano, forse, concedergli tale grazia me era un'impresa ardua ed il tempo non sarebbe stato, di certo, benevolo nei suoi confronti. Volkonogov aveva già il rantolo del maggiore Golovnya alle sue spalle.
Dopo il coraggioso ed interessante "The man who surprised everyone", presentato nel 2018 nella sezione Orizzonti dove ha ottenne il premio per la migliore interpretazione femminile, ed ora disponibile sul servizio streaming della Biennale, la coppia di cineasti russa formata da Alexey Chupov e Natalya Merkurova ha fatto ritorno a Venezia, non più da matricola, bensì in concorso, per perpetuare la propria indagine sulla Russia contemporanea. Consapevoli che il presente è il frutto del passato e che il primo ammicca con nostalgia sempre maggiore verso il secondo, Chupov e Merkulova hanno messo, momentaneamente, da parte il tessuto sociale e politico contemporaneo, su cui si fonda il successo del presidente russo, per raccontare uno dei periodi più oscuri del totalitarismo sovietico che presenta, non a caso, alcuni punti i comune con la "monarchia" putiniana: la venerazione verso il proprio carismatico leader, la difficoltà, spesso evidenziata dalla comunità internazionale, di esprimere un'opposizione politica senza finire in carcere o in obitorio. Come Sergei Loznitsa in "Process" e "State Funeral", e Andrei Konchalovsky nel recente "Cari compagni", anche Chupov e Merkulova hanno raccontato il terribile passato dell'URSS per confrontarlo con la deriva autoritaria del potere russo e la mancanza di rispetto per ogni forma di dissidenza. Si può tranquillamente dire che anche il loro cinema sia una forma di dissidenza politica mentre descrive l'effetto infausto del culto della persona di Putin nella società russa contemporanea.
Nel precedente film erano sul banco degli imputati le politiche omofobe dello stato e una mancanza di cultura e tolleranza che costituisce un'arma potente nelle mani di chi sa utilizzarla, mentre in "Captain Volkonogov escaped" si riflette sulla mancanza di libertà politica e sul terrore impartito a tutti i livelli della società, cosa che ha lasciato in eredità, alle generazioni odierne, l'apatia verso l'impegno politico oppure la cieca obbedienza verso il "modello democratico" proposto, che tanto democratico non è, non secondo parametri occidentali. Allo stesso tempo il duo russo pone l'accento sul conflitto tra dovere e coscienza. Il senso dell'uno e l'esternazione di ciò che è giusto sbagliato viaggiano di pari passo fino al momento di rottura da cui ha inizio la vicenda. Da quel punto però si instaura una riflessione nel protagonista da cui scaturisce lo scollamento tra dovere e coscienza la cui separazione è sancita dall'incontro con le vite spezzate dei sopravvissuti alle epurazioni.
"Captain Volkonogov escaped" è un film sulla necessità di sviluppare uno spirito critico che parte dall'ascolto della propria coscienza ibernata dalla dottrina del dovere. Una coscienza che si risveglia in tempo per ottenere il perdono e per concederlo al proprio inseguitore. Volkonogov, infatti, è braccato da un Golovnya prossimo a seguirlo nel viaggio finale, e solo un atto d'altruismo di Volkonogov può salvare Golovnya dalle scelte sbagliate ed impedirgli la discesa agli inferi.
Interessante che sia il suicidio, un atto abominevole secondo la morale cristiana, a donare una speranza di riscatto per Golovnya.
Il film di Chupov e Merkulova non rinuncia allo spettacolo in nome dell'impegno civile. L'apparizione al protagonista dell'amico fedele è degna di uno zombie movie mentre il ritmo rimane indiavolato con la tensione che sale man mano che il distacco tra fuggitivo e predatore si assottiglia. Forse un po' iterativo è il canovaccio che prevede la richiesta di perdono ad ogni indirizzo di Mosca ma le reazioni dei familiari delle vittime sono così diverse tra loro che la ripetitività del meccanismo viene in gran parte superata. Finale purificatorio per il corpo e per l'anima benché i colpi di pistola del boia continuino a riecheggiare davanti al muro delle esecuzioni. La presenza del boia è percepita dai malcapitati in ostaggio anche se i suoi fedeli servigi, per una volta, non sono stati richiesti. Volkonogov ha corso anche per loro.
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