Regia di Joanna Hogg vedi scheda film
Tilda Swinton è una regista che vuole scrivere una sceneggiatura sulla vita della madre. Tilda Swinton è anche la madre.
Un film chiuso in un albergo, intrappolato fra le sue geometrie, e nei geometrici campi controcampi di Swinton che per quasi tutto il tempo parla con se stessa, in un rapporto madre-figlia probabilmente sbilanciato, più rivolto al solipsismo dalla parte della seconda. Hogg attiva luoghi e sensazioni come se fosse in un horror gotico, ma l’horror non parte mai. Ci sono i fantasmi ma fanno solo qualche rumorino, e incarnano i ricordi di variegata natura che sovvengono alla madre durante la residenza nell’albergo dove ha trascorso parte della sua infanzia. E questo senso di perenne attesa del film, che si risolve con una semplice drastica rivelazione, è difficile capire se dovrebbe rimandare ad altro, per esempio alla gratuita attenzione per alcuni leitmotiv che attivano la scena ciclicamente sempre allo stesso modo - come a cantare un quieto mantra - oppure al senso di frustrazione artistica della protagonista, che registra di nascosto la madre quando parte il racconto di un suo ricordo e sembra non riuscire ad attivare una creatività più spontanea.
Su uno spirito mestamente metacinematografico, e sull’ambiguità dell’ispirazione a fatti “reali” in fase di scrittura, Hogg aveva già basato la doppietta dei The Souvenir, ma se nel secondo capitolo si arrivava a un compimento della riflessione, The Eternal Daughter riporta indietro a un punto morto, a cospetto della Morte, e non si sa bene che valore dare al pugno di mosche con cui si rimane dopo il finale. Comunque è possibile che ci si lasci avvolgere dalla semplice atmosfera, e dalla sottile ironia, e sarebbe un legittimo giaciglio di puro fetish per il gotico al cinema.
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