Regia di Mathieu Kassovitz vedi scheda film
Dopo l’esordio fulminante con L’odio (1995) al regista Mathieu Kassovitz sembravano spalancarsi le porte di un’affermazione autoriale piuttosto perentoria, vicino ad un cinema sociale attuale e pieno di energia, in grado di leggere in modo adeguato la realtà. Il lavoro seguente, Assassin(s) (1997) non solo ha vanificato quanto di buono aveva fatto invece supporre ma già denotava la ricerca di un cambiamento di orizzonte, diretto verso il genere senza troppe complicazioni. Nel I fiumi di porpora si immerge totalmente in un cinema più percettivo che di approfondimento, di spettacolarità modulata sul testo che di osservazione della realtà. Anche se tratto da un libro, la storia si svincola con disinvoltura da snodi narrativi che potevano legarsi maggiormente all’aspetto centrale di tutta la vicenda. Il suo vero fulcro che nel film apparirà quasi marginalmente, viene relegato in secondo piano a vantaggio di scene più immersive e dinamiche che alla fine lasceranno inevase molte, troppe domande. Pierre,un poliziotto di una sezione speciale , viene spedito in una sperduta cittadina montana sulle Alpi, Guernon, dove ha sede un’antica università, un addetto alla biblioteca dell’ateneo è stato ritrovato cadavere dopo essere stato mutilato. In una località poco lontano un altro detective Max, indaga sul tentativo di profanazione della tomba di una giovane morta in un incidente. I due casi si collegheranno, come l’azione dei due poliziotti. Dunque, Kassovitz agisce per accumulo, sdoppia personaggi e situazioni in un continuo crescendo che se funziona dal punto di vista del semplice coinvolgimento, non convince del tutto quando per forza di cose dovrà sbrogliare tutti gli spunti attivati perché confluiscano in un finale accettabile. Da una parte il regista pone l’agnosticismo operativo di Jean, disilluso e navigato, con la materialità e la rozzezza di Marc, che invece confrontarsi con il mondo opposto a quello abitato dai comuni mortali ( rappresentato da ciò che l’università custodisce come una fonte segreta del sapere e di un potere occulto) fa prevalere lo schematismo più semplice. Il rapporto tra le due modalità sia operative che caratteriali dei due sono tutte proiettate sull’evidenza del caso e nei suoi sviluppi più ovvi, rinunciando di fatto ad estrarre elementi non sempre derivati dall’immagine che invece potrebbero far nascere una logicità di lettura molto più complessa. L’università (e di conseguenza di tutti i personaggi che ne sono in contatto) raffigurata come il castello del sapere, anche se valorizzata da una fotografia peraltro più che discreta al servizio di tutti gli scenari del racconto, non riesce a trasformare il suo valore contenutivo in potere di scardinare l’azione o il pensiero dei protagonisti, ma viene considerata come elemento di passaggio della vicenda che invece poteva stimolare supposizioni molto meno banali. Senza evocare nostalgiche e superate divisioni tra cinema d’autore e quello più mainstream di matrice americana, si dovrebbe ormai cogliere tra registi dotati di un adeguato piglio linguistico la tendenza a fondere un tipo di cinema con l’altro sfruttando le possibilità tecnologiche ma anche lo sviluppo dell’attenzione dello spettatore su piani diversi della narrazione. Kassovitz resta invece più ancorato ad uno stile diretto ma anche indebolito da una struttura che non si modifica lungo il film lasciando lo spettatore più deluso che coinvolto da una spettacolarità abbastanza programmata e in fondo prevedibile.
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