Regia di Amos Gitai vedi scheda film
La guerra che il regista Amos Gitai (nel 2015 il suo ultimo applauditissimo film, Rabin, the Last Day), la sua guerra, giunge sul grande schermo con il quasi autobiografico Kippur. La rappresentazione cinematografica, capace di stimolare la capacità di pensare dello spettatore, è un impasto di fango e sangue che soffoca e imprigiona, che prosciuga le forze da braccia e gambe fin quando la speranza muore. Muore insieme ai feriti che non sei riuscito a salvare mentre davi tutta l'anima per portarli ancora vivi alla base. La guerra di Gitai è un costante rumore di pale d'elicottero che roteano sopra le teste di questi combattenti per la salvezza dei loro compagni caduti sui campi. È sfuggire a un nemico invisibile, che spara dovunque ma non si manifesta. Sudice barelle da cui scivolano lerci soldati in fin di vita. Ne emerge un senso di umanità senza contorni, una fratellanza senza nomi, una pietà senza perché. L'esercito israeliano descritto dall'essenziale, scarna sceneggiatura di Marie-José Sanselme con lo stesso Gitai, non è certo l'implacabile macchina da guerra cui di solito si pensa. È, piuttosto, un esiguo gruppo di uomini che improvvisano la loro presenza al fronte, che si organizzano all'ultimo minuto, che dormono per terra tormentati da incubi di fuoco. Uomini cui il 66enne cineasta di Haifa non fa sparare neppure un colpo. Il film lascia un senso di impotenza e inutilità dell'azione e del coraggio. Troppo lento nella prima parte, il montaggio va accelerando mano a mano che si sviluppa la vicenda. Gitai, con la cinepresa in spalla, ci fa correre insieme ai suoi eroi verso un elicottero pronto a decollare. Il merito è mostrare a chi guarda ciò che è verosimile sia accaduto. Si mescolano, in questo, sia l’approccio fenomenologico degli accadimenti, sia quello psicologico dei protagonisti. Il cast non è importante, perché gli uomini sono un unico corpo sofferente. L’identificazione con essi è variabile. Una narrazione filmica che, seppur coerente con l’ipotesi di partenza e vocata alla concretezza e al ripercorre della storia reale, è difficile da seguire soprattutto nella prima ora a causa di un ritmo non sufficientemente rapido, come in una rappresentazione statica che appesantisce la visione. Ma che poi accelera e abbraccia lo spettatore con realistica tenerezza come per dargli coraggio. Un viaggio filmico con un sicuro e sintomatico spunto di riflessione come un discorso filosofico. Da vedere. Voto 7.
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