Regia di Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch vedi scheda film
Ci sono tre film nelle due ore e mezza del terzo lungometraggio di Felix Van Groeningen (dopo il notevole Alabama Monroe e il pessimo Beautiful Boy), qui coadiuvato in cabina di regia da Charlotte Vandermeersch, sua compagna nella vita. Il primo è un racconto di formazione che vede protagonisti due tredicenni, Bruno e Pietro. Il primo è stato cresciuto dagli zii, ma i genitori di Pietro vorrebbero garantirgli una formazione, piuttosto che una vita da montanaro a mungere le vacche, mentre Pietro viene dalla città, Torino, ha studiato, è insicuro e ha un difficile rapporto con un padre (Timi) che proprio in Bruno vede il figlio che avrebbe voluto avere. Il secondo è un film sull'amicizia maschile, basato sull'idea del "fare", che qui consiste nell'edificare ex novo un vecchio rudere sperduto in mezzo alla bellezza abbacinante delle alpi valdostane. Il terzo è il film di una presa di coscienza, quella in cui Pietro matura - a seguito di un viaggio in Nepal che è anche la parte più debole dell'opera - l'idea concreta di potersi trasformare in un Chatwin postmoderno. L'amicizia tra i due si fa più rarefatta, ma la distanza li tiene comunque uniti, a dispetto delle difficoltà economiche di Bruno che, nel frattempo, ha messo su famiglia.
Tratto dall'omonimo libro di Paolo Cognetti (Premio Strega 2017), Le otto montagne è un film dall'atmosfera rarefatta come quella che si respira ad alta quota, un buddy movie coraggioso e insolito che sembra quasi un adattamento dell'hessiano Narciso e Boccadoro ai tempi della globalizzazione. Girato con un inaspettato 4:3 che si tiene lontano da qualsiasi tentazione oleografica, nel film dei due registi belgi vediamo, oltre alle montagne, gli sguardi e i silenzi dei due ottimi protagonisti (che tornano a recitare insieme dai tempi di Non essere cattivo) che dipingono un caleidoscopio di chiaroscuri umorali, una fenomenologia dei sentimenti di due personaggi implosi: laconico, diretto fino alla scontrosità e determinato per la propria strada quello di Bruno (Borghi); più fragile, incerto e gregario quello di Pietro (Marinelli). Ed è una scelta felicissima (soprattutto grazie alle pagine di Cognetti), che evita il clamore di figure eccessivamente paludate, giocando per sottrazione con i confini di due personalità cariche di dubbi e incertezze.
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