Regia di Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch vedi scheda film
Dal bestseller di Paolo Cognetti, arriva al Festival di Cannes in Concorso, la trasposizione de Le otto montagne: un film riuscito soprattutto nella sua convincente prima parte preparatoria, che conduce poi ad un finale zoppicante ed episodico che procede a sbalzi e in modo didascalico.
Le otto montagne, film tratto dal noto ed omonimo romanzo di Paolo Cognetti ( vincitore del prestigioso Premio Strega nel 2017) è stato uno degli ultimi film ammessi al Concorso di Cannes 75.
Diretto dal noto regista belga Felix Van Groeningen (The misfortunates, Alabama Monroe, Belgica) assieme all’attrice belga Charlotte Vandermeersch, il film è una co-produzione franco-belga-italiana girata in Val D’Ayas, in Valle D’Aosta, girato in italiano e considerato il secondo film del Concorso cannese dopo Nostalgia di Martone.
Pietro e Bruno hanno dodici anni quando le loro vite vengono ad incrociarsi nel paese di montagna ove vive quest’ultimo, nei pieni anni ’80 dello spopolamento dei paesi a favore delle grandi città.
Pietro è figlio di una famiglia borghese torinese che decide di affittare una casa ove trascorrere in tranquillità, madre e figlio, tutte le vacanze estive, venendo raggiunti nel weekend dal babbo ingegnere.
Bruno è l’unico bambino rimasto in paese e d’estate si trasferisce per buona parte del tempo a pascolare le vacche dello zio con cui vive dopo che la madre è morta ed il padre è emigrato in Svizzera a fare il muratore.
Quella dei due bambini, così diversi e provenienti da mondi opposti ed antitetici, diviene un’amicizia che saprà sfidare il tempo, le disgrazie, i crucci di entrambi i giovani nel loro percorso contraddittorio e difficoltoso volto a cercare di affermarsi o di trovare la giusta strada per una concreta soddisfazione di vita.
Li seguiamo fino quasi ai giorni nostri, quando le fortune di uno corrisponderanno alle cadute dell’altro e viceversa, fino a scoprire che nemmeno la morte potrà essere in grado di cancellare o compromettere quel legame maturato in modo così forte e indistruttibile.
La vita a contatto con la natura, l’essere peculiari e poco predisposti ai compromessi, e scegliere sempre la via più difficile e meno scontata, sono un po’ le caratteristiche costanti del cinema interessante che ha reso noto e premiato il regista belga di un certo talento Felix Van Groeningen.
Probabilmente si deve a questa attitudine la scintilla che ha fatto scoccare l’innamoramento del regista per un adattamento del fortunato romanzo di Cognetti, scegliendo saggiamente di non cambiarne i connotati nazionali di ambientazione.
Lungo tutta una lunga prima parte il film narra con un buon ritmo ed una sostanziale linearità di narrazione i presupposti che hanno fatto nascere l’amicizia tra i due bambini, e l’evolversi delle rispettive adolescenze, gli incontri nelle estati che seguiranno e le motivazioni che hanno indotto i due ad abbandonarsi reciprocamente per anni.
Poi il film di dilunga a raccontare tutta la dinamica del ritrovamento reciproco dei due, a seguito della morte del padre di Pietro, e la scoperta che, in quegli ultimi anni di vita, fu più Bruno il vero figlio per quel padre incompreso ed abbandonato dal figlio naturale.
Ma la vicenda, troppo episodica e frammezzata di eventi disposti a raffica uno dopo l’altro, senza un criterio narrativo che possa ritenersi in linea con la lodevole prima parte, perde via via smalto, girando un po’ troppo su se stessa, fino a risultare decisamente in difficoltà nel riuscire a chiudere con una certa armonia.
Peccato perché Van Groeningen ha avuto anche il merito, probabilmente saggiamente consigliato, di scegliere due tra i più bravi ed interessanti interpreti della scena recitativa italiana, come senz’altro appaiono sia Luca Marinelli, sia Alessandro Borghi. Quest’ultimo bravissimo anche a calarsi nella parlata locale, decisamente ostica per un romano come lui costretto a cancellarsi di dosso quella cadenaza così marcata e difficilmente occultabile.
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