Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Stavo notando che molti registi coltivano verso il musical una sorta di passione proibita. Pensavo, ad esempio, a Nanni Moretti, che annuncia di voler realizzare un musical da una vita, e si è limitato ad un intermezzo nel discontinuo Aprile. C’è quasi un pudore nel non invadere territori nobili come quelli del musical, il genere che maggiormente si lega ad una tradizione classica. Allora c’è solo una strada da battere per coltivarlo in modo personale: contaminarlo con altro. A livello formale e stilistico, Von Trier agisce in tale maniera: amalgama quel che lui conosce meglio, ossia i diktat del Dogma 95 (seppur utilizzato in modo molto soft, non hard come avrebbe fatto con Dogville), con ciò che probabilmente gli piace. Sotto queste vesti, il musical acquista connotati psicanalitici di evidente suggestione: la protagonista evade dalla sua realtà per cercare serenità canticchiando una canzone e danzando allegramente. Perfino l’autore sembra assisterla nel suo obiettivo, colorando la fotografia di per sé sporca e spudoratamente reale di tinte cromatiche più avvolgenti e luminose. Si instaura una specie di alchemica complicità tra Von Trier e Bjork, ma al contempo si costruisce un muro di gomma che sballotta Selma (ossia Bjork), la quale implora il suo regista di privarla di tanto dolore. Ed è forse il distacco restio dello stesso regista a gettare Selma nel baratro dell’incomunicabilità (provocata dalla progressiva cecità che l’attanaglia), rendendola ostile a qualunque tipo di scialuppa di salvataggio, di autodifesa disperata, di fuga dall’ineludibile.
Proprio per queste ultime caratteristiche Dancer in the dark (oh Bruce!) è un film che scuote: è un film doloroso sul dolore. Irritante fin che si vuole nella sua messinscena non particolarmente gradita a tutti i palati, vale più per quel che cerca di dire, specie nella seconda parte, che per come lo dice. Von Trier percorre una sua strada, una sua idea di cinema che certo non può accogliere tutti, e non so fino a che punto lo faccia con sincerità e a che punto subentri altro. Però colpisce, non troppo nella prima parte quanto nella seconda, quando entra in gioco l’angoscia cruda ed essenziale, la paura della morte e l’attesa di essa, la complicità della guardia carceraria. Due i best moment del film: il primo è nell’aula del tribunale, quando compare Joel Grey (il Presentatore di Cabaret, proprio lui) che balla il tip-tap assieme a Bjork; l’altro è la sequenza finale dell’esecuzione della pena, con la canzone di commiato e la morte. Più di Bjork, musicista votata alla causa vontrierana di questo film al punto di comporne anche le musiche, fin troppo stordita e smarrita, è da segnalare la prova di una Catherine Deneuve protettiva, dolce, determinata. Un film sull’amore cieco e sulla cecità dell’amore, triste e stralunato, forse fin troppo.
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