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Il boss

Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film

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La recensione su Il boss

di lamettrie
9 stelle

Uno splendido film d’azione, non noto come meriterebbe, come sempre nel caso di Di Leo. Più che per le scene d’azione, che sono da manuale, comunque il regista pugliese qui è da elogiare per la nitida descrizione del rapporto tra stato e mafia: un rapporto vivo,  intenso, decisivo per la sopravvivenza e il prosperare di entrambi (per quanto patologico per lo stato, cioè tutti noi), professionale, serissimo, di quelli in cui non ci si può permettere di sbagliare.

La simbiosi tra stato e mafia è resa benissimo, proprio nella sua accezione più tragica: è lo stato ad appiattirsi per essere mafia, più che il contrario. Sia chiaro: il rapporto è per lo più alla pari, e, drammaticamente, è fatto di convenienza reciproca, mentre la contrapposizione radicale è solo apparenza da sfruttare opportunisticamente e propagandisticamente. Tale contrapposizione non è mai reale, quando invece dovrebbe essere l’unica scelta da parte dello stato, senza alternative.

I mafiosi portano voti indispensabili ai politici: riescono a determinare la politica. Ma è pur vero che poi la politica, anche così, si ritaglia una certa autonomia nel gestire tale potere che le è stato conferito. Anche perché non tutto il potere arriva grazie ai voti estorti con la violenza del ricatto economico (o obbedisci a me, criminale, oppure muori di fame, se non muori prima perché hai denunciato l’iniquità che dici reale, e che poi reale è davvero) da parte dalle tante, ricchissime costole della criminalità organizzata. Tanto potere arriva ai politici anche per altri canali, compresi quelli apparentemente legali del voto libero. Perciò il politico aggiunge il voto del bacino mafioso, e deve rispettarlo, assecondarlo, in gran parte obbedirvi, non può rinunciarvi. Ma tale politico mantiene sempre il potere del ricatto verso il mafioso, a livello non locale ma nazionale: infatti può creare anche maggioranze alternative, se vi riesce, e quindi, (ma quasi solo a livello macro e non locale, è doveroso ribadirlo) può costringere a patti persino la mafia, che non può imporre ciò che vuole ai partiti, e che altrimenti si troverebbe parzialmente insoddisfatta, seppure con il suo potere di ricatto, dovuto a un numero d voti che è irrinunciabile, per chiunque voglia governare.

La storia quindi dell’armonia, e della sua continua, per quanto efficace, contrattazione, tra stato e mafia è qui ben lumeggiata (con svantaggi però per quasi tutti, esclusi i ricchi ladri e i politici che si sono fatti corrompere per la lo carriera nel potere). In un soggetto, americano, che qui è stato riadattato assai bene da Di Leo, per essere attagliato, e alla perfezione, alla specifica situazione tricolore.

Stupenda è la fotografia di Franco Villa, così come il montaggio e l’accompagnamento musicale di Bacalov. Cast all’altezza.

Unica nota stonata: l’inverosimiglianza del godimento della ragazza nel farsi stuprare. Il mito della ninfomane, che qui anela il rapporto sessuale con i suoi aguzzini,  sapeva molto di post’68, agli occhi del maschio, che qui è il vero destinatario. La libertà sessuale ha preso così tanto piede da soddisfare i sogni dell’uomo, specialmente quello allupato: una ninfomane così poco credibile, nella sua pur possibile psicopatia (da sindrome di Stoccolma), commercialmente attraeva. E negli anni ’70 si è iniziata a mostrarla, per via della rimozione di tanti tabu.

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