Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film
Capitolo conclusivo di una riuscita trilogia noir firmata da un ispiratissimo Fernando Di Leo.
Uno scontro tra bande rivali di due differenti cosche mafiose vede coinvolto il potentissimo Don Corrasco (Richard Conte) e il costruttore Cocchi (Pier Paolo Capponi). Al soldo di Corrasco si muove il feroce killer Lanzetta (Henry Silva) talmente cinico e spietato che non esita ad eliminare Daniello, suo padre putativo e costruttore colluso con importanti uomini politici, che pur di salvare la figlia Rina (Antonia Santilli) tenta di pagare un riscatto andando contro le direttive del boss. Frattanto nelle aule della polizia si agitano personaggi collusi tipo il commissario Torri (Gianni Garko) o impossibilitati a reagire come il questore (Vittorio Caprioli) costretto ad assumere ruolo passivo di spettatore cinico, quando non ironico.
Terzo capitolo, dopo Milano calibro 9 e La mala ordina, della trilogia del milieu diretta da un ispiratissimo Di Leo che stavolta però, anziché trarre spunto da Scerbanenco, si rifà al romanzo Il mafioso di Peter McCurtin.
Di Leo ripone particolare attenzione nel tratteggiare loschi (ma a suo modo trasparenti) figuri, resi credibili -in maniera eccellente- da interpretazioni indelebili nella cinematografia di stampo italiano. La glaciale figura di Lanzetta (Henry Silva) e quella -non meno gelida- del potente Don Corrasco (Richard Conte), vengono affiancate dal commissario Torri (Gianni Garko) mediante l'utilizzo di uno script scorrevole, animato, sempre attento alla verosimiglianza psicologica. Eccellenti poi appaiono le sarcastiche (ma anche sconsolanti) disgressioni del questore qui interpretato da un bravissimo Caprioli.
Rispetto ai due titoli precedenti, l'azione si sposta da Milano a Palermo mentre inalterato rimane il clima di cinico e inarrestabile pessimismo che avvolge, più o meno, ciascun protagonista. A cominciare dalla figura di un killer glaciale come Lanzetta, che sembra assumere vaghe sfumature di umana sensibilità solo di fronte al cadavere di Rina.
La ferocia con cui si apre il film, ovvero con il massacro in una sala di proiezione effettuato con lanciagranate, solidifica nell'avanzamento del racconto (i cadaveri vengono letteralmente fatti sparire tra le fiamme di infernali forni) e va' di pari passo con il tradimento (vero centro narrativo del film) al quale, o in forma di vittima o in quella di carnefice, nessuno pare sottrarsi.
Tra figure negative e assolutamente disprezzabili, a metà strada si colloca Rina, contestataria figlia di un mafioso che sembra perdere la ragione tra le braccia di un sicario, mentre unico personaggio positivo sembra essere il questore: solo contro un sistema totalmente colluso dove personaggi che dovrebbero essere da esempio (imprenditori, tutori dell'ordine, avvocati, politici e persino religiosi) finiscono per essere ben peggiori dei malavitosi.
Leggermente inferiore rispetto ai titoli precedenti, ma pur sempre sopra la media, la partitura musicale di Bacalov.
Citazione
Per cercare di fare luce sui fatti, l'onorevole Gabrielli (Mario Pisu) si trova a discutere con il questore (Vittorio Caprioli) il quale -impotente di fronte alla dilagante corruzione- può solo fare constatazioni sarcastiche per quanto drammatiche, del tipo:
"Pignataro e Lanzetta. Pignataro è il figlioccio di don Corrasco, e Lanzetta è il figlioccio di don Daniello. Abbiamo mandato i mandati di comparizione. Pignataro è domiciliato presso i suoi genitori, che non ne sanno niente. Lanzetta: si ha una pista sola, ma sicurissima. È il certificato di nascita. Dove è nato si sa... ma fino a quando proprio... questo non ha fatto scuole, non ha fatto il servizio militare, non ha mai votato. Io non l'ho mai visto, non s'è mai fatto vedere. Per acchiapparlo c'è una sola speranza: rivolgersi a San Gennaro!"
Curiosità
Il boss: tra realtà (tanta) e finzione (poca)
Il Boss è stato un progetto molto ambizioso, andato ben oltre, per risultato, al semplice film d'intrattenimento.
Se si pensa che la pellicola denuncia, con lucidità estrema (e riferimenti a nomi e personaggi dell'epoca) il sistema mafioso* in anni non sospetti, si può intendere quale coraggio abbia sfoderato Di Leo, qua appoggiato da attori che, anche se solo in ruoli marginali (ad esempio lo strepitoso Vittorio Caprioli) offrono una performance eccellente.
Lo spunto iniziale è dato da un romanzo scritto da da Peter Mc Curtin, sul quale, però, il regista innesta avvenimenti e personaggi del panorama politico, imprenditoriale e giudiziario italiano.
Sui nomi chiamati in causa ne Il Boss, lo stesso Di Leo, al riguardo, fece notare che era presente "persino quello di un politico democristiano che mi portò in tribunale, noto mafioso il cui nome figurava negli atti dell'antimafia ed era lo stesso ministro"...
Il politico in questione era l'allora ministro delle poste Giovanni Gioia che, riconosciutosi, intentò una causa alla produzione del film (si ricorda, al riguardo e per affinità, l'interessante Perché si uccide un magistrato, diretto da Damiani nel 1974).
Altro evidente rimando alla cronaca del periodo lo si riscontra nel personaggio di Corrado Gaipa che - sempre secondo il regista - "adombrava un noto avvocato intrallazzatore della vita dell'isola, con "contatti" a Roma... e non mancano frecciate alla Chiesa: azzardai il dialogo tra un cardinale e il boss. Mai niente del genere si era visto in Italia, nè prima nè dopo, se non in chiave di "farsa". Il cardinale in questione era Ruffini, quello che disse: "la mafia? Ma che esiste la mafia?....". Dopo l'uscita del film, a Palermo, mi aspettavo i picciotti sotto casa."
*condannando lo stesso, composto da macchine prive di umani sentimenti, eccezion fatta per la falsità e la menzogna - Lanzetta, ad esempio non esita ad eliminare il padre putativo
Fonte della curiosità: Booklet allegato alla VHS Shendene a cura di Davide Pulici e Manlio Gomarasca (Nocturno cinema).
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