Regia di Robert Stevenson vedi scheda film
Un ex militante comunista, che ha fatto carriera come dirigente portuale e non ha mai rivelato il proprio passato alla moglie (del resto appena sposata, pochi giorni dopo il loro primo incontro), viene ricattato dagli ex compagni che intendono usarlo per creare tensioni sociali. Il titolo originale I married a communist deve essere sembrato eccessivo persino agli americani, visto che poi lo hanno sostituito con The woman on Pier 13. Ciò non toglie che si tratti di un reperto archeologico della guerra fredda, altamente istruttivo sull’immaginario paranoico degli sceneggiatori dell’epoca: i rossi sono viscidi, ghignanti, subdoli, il loro capo ha l’aria porcina, e soprattutto la parola “comunista” viene sistematicamente usata come sinonimo non di “nemico” ma di “alieno”. Viene in mente un’osservazione di Italo Calvino sul suo soggiorno statunitense del 1959-60: “La domanda che un visitatore italiano si sente continuamente fare dagli americani di media cultura è: È ancora forte in Italia l’infiltrazione comunista?; e quando spieghi loro che finché penseranno che il comunismo è un’infiltrazione non capiranno niente di quel che succede nel mondo, sembra che si parli di cose cui non avevano mai pensato”. Alla rozzezza ideologica fa da riscontro l’improbabile côté sentimentale, con una giornalista mondana che manipola il giovane cognato del protagonista e finisce per innamorarsene. Un film che si guarda con un certo imbarazzo.
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