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I giganti

Regia di Bonifacio Angius vedi scheda film

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Sergio12

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La recensione su I giganti

di Sergio12
10 stelle

E per tornare alla casa che “parla”: dietro le imposte, all’esterno, la persiana si concede un piccolo movimento (involontario?) come un impercettibile battito d’ali, o un occhiolino. È la magia del cinema.

Ho visto per la seconda volta il film di Bonifacio Angius “I Giganti”. Si è senz’altro meritato lo sforzo di una recensione ????
Il desiderio di essere Giganti.
Si intitola “I Giganti” l’ultimo film di Bonifacio Angius, che conferma la competenza del regista nel proporre tematiche esistenziali di respiro universale in maniera sincera, originale, efficace.
Cinque personaggi si muovono all’interno di un casolare in una brulla e desolata campagna sarda. L’esterno della casa, a partire da una saracinesca divelta, evoca un passato di violenza e abbandono. L’interno è in stile “mia zia”, come dirà Andrea, inaugurando una serie di battute dal retrogusto amaro che lungo tutto il film ammorbidiscono una tensione che cresce in maniera impercettibile ma inesorabile.
Già dalla locandina si evince la volontà di creare uno stile che evochi un passato di frontiera, sottolineando la presenza forte del “personaggio” (dei personaggi, qui tutti protagonisti) alla maniera del Bello, Brutto e Cattivo di Sergio Leone. Le quattro differenti personalità adulte del film, Stefano (Stefanì, il padrone di casa), Massimo (che ricorda la struggente rozzezza del migliore Giancarlo Giannini di wertmulleriana memoria), Andrea (che porterà la droga, rivendicando il suo “diritto” al divertimento pagato) e Piero (il politico “arrivato” con una storia di corruzione alle spalle) si distanziano significativamente dal più giovane Riccardo, fratello di Piero, che funziona da trigger di emozioni distruttive e si farà portavoce farneticante di alcune importanti chiavi di lettura dell’opera.
I dettagli del vissuto più traumatico di Stefano e Massimo, punte dell’iceberg di una altrimenti poco chiara serie di vicende di fallimenti, sono mostrate in un paio di flashback ripetuti in momenti di forte intensità emotiva. E’ il senso di abbandono; è il non potersi fidare delle persone che “dicono che fanno una cosa e poi ne fanno un’altra”; è il senso di alienazione profonda e di solitudine, suggerita dalle stesse parole di Stefano “Adesso non ci si può più avvicinare alle persone… e chi si è mai avvicinato?”
Altri registi hanno espresso lo stesso esasperato senso di angoscia. Bonifacio Angius lo fa a modo suo, un modo esemplare. Ha le idee chiare su tutto. Dalla struggente colonna sonora totalmente inventata dal regista e dal musicista Luigi Frassetto, al limite tra suono diegetico e commento off; il raffinato uso delle luci, o meglio, delle ombre, che sottolinea, rinforzata da primissimi piani, l’intensità di alcuni momenti di “confessione”; il rumore dei silenzi, esasperato da passi, cigolii di ante, il caricamento di un revolver, il vento, il treno…
Parlando poi di scenario, oserei dire che gli ambienti della casa sono essi stessi un personaggio, una presenza muta. Questa cerca con ostinazione di preservare oggetti, spazi, odori ormai trascorsi. Contiene scheletri, uno anche di plastica, come a voler fare uno sberleffo alla morte. Corridoi con porte che celano altrettanti luoghi sconosciuti. Una delle scene più belle si gira su un corridoio vuoto. Da una delle stanze una voce esprime toni che vanno dalla neutralità all’apprensione, poi inquietudine, incredulità, panico, disperazione, in un crescendo di notevole maestria attoriale.
Per quanto riguarda le inquadrature ed il loro rapporto con l’azione, risulta narrativamente efficace il fatto che alcune parti significative vengano riprese “di spalle” o sugli attori che “guardano” la scena costringendo lo spettatore ad uno sforzo immaginativo che amplifica ciò che viene ritardato di qualche secondo.
Se è vero che il titolo “I Giganti” sembra proporsi in maniera ironica e antifrastica rispetto ai personaggi – Riccando li evoca per onorare Stefano, paragonandolo a uno dei Giganti di Monte Prama della mitologia sarda – è anche vero che la grandezza di questi “antieroi” viene comunque riscattata da una certa “consapevolezza” (confermata anche dallo stesso regista in un’intervista).
Consapevolezza anche nel gioco delle parti. Lo afferma Stefano nella sua voce fuori campo: “Io non sono quello che dico, né quello che faccio”.
Questa coscienza del sé, benché rivelata tra le pieghe della lucida follia indotta dalle droghe, è esposta come “manifesto” sulla vita e sulla morte da Riccardo, sia in occasione delle “onoranze” riservate a Stefano, che nel monologo finale.
Lo stesso Riccardo si fa portavoce del senso stesso del narrare cinematografico, quando dice “più che una storia è una novella… un poemetto”; “se ci credi sei fritto, perché è tutto falso”.
In questo forse si sollecita lo spettatore a sospendere l’incredulità e lasciarsi andare, galleggiare leggeri e lasciarci trasportare o talvolta immergerci nelle profondità e goderci il panorama.
Poiché questo è cinema che parla anche molto di cinema.
Quanti di noi non hanno fatto a meno di pensare ai siparietti di Ciprì e Maresco nella sapiente composizione del quadretto esterno dei personaggi che “guardano” passare la cometa? Quanti altri cortei funerari di pari suggestione abbiamo già visto? Io li ho visti, ma ora non ricordo… forse quello presente in Amarcord di Fellini? Nello stesso film anche Ciccio Ingrassia gridava tutta la sua frustrazione dall’alto di un albero, così come fa Piero attraverso una finestra semichiusa. E per tornare alla casa che “parla”: dietro le imposte, all’esterno, la persiana si concede un piccolo movimento (involontario?) come un impercettibile battito d’ali, o un occhiolino.
È la magia del cinema.
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