Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Pietra miliare.
La prima istintiva reazione che un film così oscenamente esplicito è capace di generare si sostanzia in una banalissima domanda: “Che cosa ho visto?”. Dopodiché, si apre una biforcazione: si può lasciare che la natura prenda il sopravvento, e rigettare i resti della cena in un secchio; o riflettere sulle implicazioni e la brutalità profetica del pamphlet pasoliniano. Ci si accorgerebbe allora che sembra tutto quanto già visto. Viviamo in un mondo in cui esecrabili guitti ammaestrati s’azzannano fra loro nei pecorecci teatrini messi insieme da Barbara d’Urso; poveracci dimenticati persino dalle loro madri, all’Isola dei morti di fame (e di fama), in diretta televisiva, ingaggiano lotte nel fango come i maiali e con avidità belluina dilaniano brani di cibo; c’è un consolidatissimo business mediatico della morte - da Avetrana in avanti - non granché dissimile dalla necrofilia. La società dei consumi e la greve demagogia di pancia, in azione combinata, hanno condotto a termine ciò che il nazismo aveva utopicamente tentato con la stirpe ebraica: la nullificazione delle identità è ormai una realtà, siamo circondati da automi che pensano con una sola testa, fra l’altro bacata. Pasolini nel suo film introduce una polarizzazione violenta fra chi detiene il potere e chi non lo ha. Asserire che i quattro notabili/aguzzini dispongono della vita e della morte del sottomesso sarebbe fin troppo limitativo; lo sfruttamento del potere è inteso a un dominio più globale sull’individuo, a partire dal suo intelletto, che è definitivamente rinnegato. Tuttavia, la risposta dei giovanetti a questa manipolazione delle loro libertà è negativa, tutt’altro che eroica. C’è chi chiede la morte, con rassegnata codardia; c’è chi sfrutta a suo vantaggio il clima libertino, adeguandosi ad esso, per dare libero sfogo al proprio istinto sessuale represso. Si respira ovunque l’afrore sulfureo della sconfitta. I quattro potenti depravati hanno asservito la propria conoscenza al male, facendo peraltro della propria depravazione un fatto di poco conto, deflagrante solo all’apparenza e banalizzandolo attraverso la ripetitività del gesto: sono omiciattoli meschini che suscitano pietà più che ripugnanza. I sottomessi, d’altra parte, poco ardimento mettono per sottrarsi al loro destino, e la sfilata dei loro sederi finisce per essere la mostra più intensa delle loro personalità. Umani, troppo umani, ci appaiono i personaggi dello zoo pasoliniano: ciò che ci spaventa non è tanto la loro alienazione quanto la loro normalità. Lo straniamento privo di empatia con il quale guardiamo alle turpitudini dei protagonisti del Salò è la medesima nauseante assuefazione che ci prende quando silenziosamente assistiamo agli orrori, piccoli e grandi, del mondo, dall'episodio di bullismo alla guerra in Siria, alla farsa dursesca, al clochard bruciato vivo, ai linciaggi sul webbe, ai linciaggi reali. Tutto va a catafascio in un'unica melma indistinta e noi, umanamente, invece che metterci a combattere contro i mulini a vento, ci adeguiamo, subiamo, diventiamo comprimari e complici inconsapevoli dello sfacelo. Giornalmente ci viene spacciata la merda per caviale, e noi giornalmente ci caschiamo e ce la facciamo anche piacere: il testamento cinematografico di Pasolini non avrebbe potuto essere una profezia più abrasiva e terribilmente vera sul futuro del mondo.
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