Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
In una delle sue “Stanze” il 91enne Indro Montanelli, che di Pasolini fu collega al Corriere della sera, terminava un articolo ricordando le bellissime pagine che Pier Paolo Pasolini scrisse nella sua vita, a questo però aggiungeva che puntualmente le faceva rimpiangere con dei bruttissimi film. Questo giudizio tranchant del grande giornalista toscano ovviamente va contestualizzato e ricondotto anche ad una persona distantissima sia politicamente che probabilmente a livello artistico (sebbene Montanelli sia sostanzialmente ricordato unicamente per l’attività giornalistica si cimentò anche nella realizzazione di commedie teatrali, soggetti cinematografici e persino regista del film I sogni muoiono all’alba, per cui diciamo che aveva una certa sensibilità anche in questo campo). In questa introduzione non voglio avvalorare la tesi di Montanelli ma certo la realizzazione di un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma ha con ogni facilità portato critica e pubblico ad un punto di non ritorno rispetto alle opere precedenti del regista, che già erano sempre costellate di polemiche e a rischio di censura. Negli anni ’70, con una profonda apertura delle maglie della censura, avevano anche aperto le porte a film praticamente impossibili da realizzare sino ad allora. Bisogna dire che il cinema italiano fu protagonista di questa esplosione artistica che probabilmente faceva impallidire i censori: se dall’estero arrivavano titoli come I diavoli, Arancia meccanica o Cane di paglia, ecco che l’Italia contestava costumi e potere con Ultimo tango a Parigi, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, arrivando nel 1975 a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Allora come oggi non si può non rimanere scandalizzati di fronte ad una messa in scena così priva di ogni filtro: nudità, atti sessuali, perversioni e violenze trionfano in una sequenza di efferatezze che non si erano mai viste sul grande schermo. Proprio come i capitoli del film, anche lo spettatore accompagna vittime e carnefici in veri e propri gironi infernali. Sintetizzando brutalmente le allegorie pasoliniane che si rifanno a quelle, forse ancor più estreme, narrate dal Marchese de Sade nel suo romanzo Le 120 giornate di Sodoma, vediamo un sorta di trasfusione della brutalità del potere, incarnato nei 4 protagonisti e carnefici, che interpretando ciascuno un preciso ruolo nella struttura sociale (potere politico, religioso, giudiziario ed economico) si cimentano in questa meticolosa carneficina che passa innanzitutto dall’annientamento dell’anima e del fisico delle loro vittime: nessuna forma di pietà attraversa la vicenda, anzi ogni ulteriore cedimento o implorazione da parte delle vittime diviene elemento scatenante della ferocia, accompagnata all’eccitazione da parte dei carnefici. Inutile addentrarsi sulle sequenza che appunto si faticano a sostenere, piuttosto è interessante la visione apocalittica che Pasolini trasmette in un’ottica certamente più politica: in buona sostanzza questa architettura distruttiva è indissolubilmente connessa al fascismo: dunque fascismo e violenza/morte sono due concetti endiadi per Pasolini, che peraltro evidenzia tra le località quella di Marzabotto, teatro di uno dei più efferati eccidi ad opera dei nazisti. Da un punto squisitamente cinematografico, il livello di tensione e di angoscia trasmessi allo spettatore sono inarrivabili. Parallelamente questa messa in scena proprio per la sua totale brutalità difficilmente appare digeribile, tanto da far emergere un dubbio: era questo l’unico modo per rappresentare il male delle dittature? Probabilmente anche in quegli anni si avvertiva l’esigenza di una rappresentazione appunto ai limiti della sopportazione, non a caso il film Novecento di Bertolucci si intreccia al film di Pasolini, oltre che per il fatto che fosse girato in contemporanea, tanto da permettere ai rispettivi attori di interfacciarsi amichevolmente durante la lavorazione, ma soprattutto perché anche nel kolossal di Bertolucci la dittatura fascista si concretizza con una rappresentazione di una violenza ed una spietatezza inusitate (ricordiamo il personaggio di Attila, interpretato da Donald Sutherland, che arriva a compiere oltre ad omicidi persino un infanticidio preceduto da un atto di pedofilia). Le polemiche e le censure che accompagnarono l’uscita del film, peraltro postuma alla morte violenta del regista, hanno potuto creare certe dietrologie o comunque possono essere lette come un attentato alla libertà espressiva di un grande artista ed intellettuale. Obiettivamente mi viene più da pensare che allora ma forse ancor di più oggi, un film di questo tipo non troverebbe vita facile senza andare a scomodare congetture di natura politica. Ancor più mi verrebbe da pensare che in paesi fuori dall’Italia una pellicola del genere non avrebbe persino visto la luce, se pensiamo appunto ai problemi di distribuzione che film ben meno scandalosi hanno avuto in vari paesi. In conclusione difficile anche esprimere un giudizio in numeri o stellette, come ribadito da molti il senso di disgusto di vessazione supera di gran lunga la poetica e la denuncia del film che comunque trattiene una lucidità registica eccezionale.
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