Regia di Antoine Fuqua vedi scheda film
Antoine Fuqua, bravo. Ma il film è di Gyllenhaal al 100% di origine controllata anche se il suo personaggio rischia di andare out of control. Quasi seduta stante. Eh eh.
Ebbene, oggi recensiamo un film nuovo e freschissimo di zecca, cioè appena distribuito mondialmente sulla piattaforma di streaming Netflix, ovvero The Guilty. Film “remake” dell’omonima pellicola danese, perlomeno nella nostra traduzione, con annesso Il colpevole, (in originale Den skyldige), per la regia di Gustav Möller, in tal caso diretto dal valente, anzi polivalente Antoine Fuqua. Regista, per l’appunto, versatile e capace di cimentarsi, con risultati lusinghieri, perlomeno nient’affatto disprezzabili, in molteplici generi cinematografici, autore di film di estremo interesse e rilievo meritevole quali Training Day, il non poco sottovalutato Brooklyn’s Finest con Ethan Hawke e un meraviglioso Richard Gere e, fra gli altri, il dittico The Equalizer con Denzel Washington, uno dei suoi attori feticcio per antonomasia (vedasi, a tal proposito, anche un altro rifacimento, cioè I magnifici 7.
Assieme a Denzel Washington ed Ethan Hawke, un altro degli attori preferiti da Fuqua è ovviamente Jake Gyllenhaal, per l’appunto, protagonista di tale The Guilty, dramma poliziesco molto sui generis della breve ma adrenalinica, furente durata di un’ora e quaranta minuti circa, scritto da Nic Pizzolatto (True Detective).
Gyllenhaal, in forma recitativa davvero strepitosa, d’altronde come quasi sempre, torna dunque a lavorare con Fuqua dopo Southpaw - L’ultima sfida.
Semplicemente copia-incollandovi la secchissima, iper-concisa sinossi da IMDb, questa è essenzialmente la trama di The Guilty: Un agente di polizia (Joe Baylor/Gyllenhaal), retrocesso assegnato a un ufficio di smistamento chiamate, è (per meglio dire, entra) in conflitto quando riceve una telefonata di emergenza da una donna rapita (Emily, di cui non vediamo mai il volto ma la cui voce è dell’attrice Riley Keough).
The Guilty è praticamente un kammerspiel assai particolare che, illuminato dalla potente e al contempo cupa fotografia traslucida di Maz Makhani, sorretto nella palpabile ed emozionante tensione crescente dall’incalzante musica di Marcelo Zarvos (Barriere), montato perfettamente da un precisissimo, inappuntabile e certosino Jason Ballantine (Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, It di Andy Muschietti), per poco meno di due ore, come sopra dettovi, si concentra pressoché esclusivamente sul volto di Gyllenhaal, onnipresente dalla primissima all’ultima, finale e ambigua inquadratura. Recitando da dio solamente con la forza magnetica del suo sguardo e delle sue cangianti espressioni che, parossisticamente, mutano a velocità rapidissima a seconda del frenetico, repentino precipitare emozionale furibondo degli eventi terribilmente spaventevoli a cui “assiste”, diciamo, sol ascoltandoli e a cui tenta disperatamente, comunque sia energicamente, di porre rimedio. Ovviando, con la sua forza di volontà impressionante, alla grave e allarmante situazione incresciosa occorsagli e soprattutto riguardante la donna da soccorrere...
The Guilty è un thriller di alta scuola forse non eccezionale ma girato con maestria impeccabile, compatto, gustosissimo e che scorre tutto d’un fiato in un ascendere maestoso di suspense al cardiopalma veramente da pelle d’oca. Verso la parte centrale, The Guilty perde però qualche colpo e, come si suol dire, gira leggermente a vuoto, aggrovigliandosi su sé stesso. Nell’accavallarsi di voci “sincopate” che udiamo nel rimbombare metaforico dei fatti virulentemente narratici, quelle di Paul Dano, Peter Sarsgaard e, naturalmente, eh eh, di Ethan Hawke.
Joe riuscirà a salvare la donna e suo figlio...? Perché Joe è stato declassato? Lo scoprirete solo alla fine.
Riuscirà, insomma, a redimersi? Basta, nella vita, la catarsi per perdonarsi da madornali colpe scurissime che t’avvinghiano nell’inferno d’un luttuoso complesso di colpa inestirpabile?
Il film s’apre con una citazione speranzosa di Giovanni 8:32, E la verità vi farà liberi (And the truth shall make you free), concludendosi con un’altra frase lapidaria ma salvifica e ottimistica, cioè Chi soffre salva chi soffre.
di Stefano Falotico
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