Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Maren e il padre vivono in giro per l’America, costretti a spostarsi continuamente per gli atti di cannibalismo di cui la ragazza si rende colpevole. Quando l’uomo, ormai impotente di fronte alla natura della figlia, decide di abbandonarla, Maren continua il suo viaggio on the road da sola. Durante il tragitto di crescita e conoscenza, imparerà ad accettare il suo vizio, scoprirà di non essere la sola ad averlo e incrocerà la sua esistenza prima con il vecchio Sully e poi con il ribelle Lee.
Luca Guadagnino è un incantatore. Lo aveva già dimostrato riportando sul grande schermo il coraggioso adattamento della pellicola più importante di Dario Argento, e lo conferma con questo thriller dalle venature horror e sentimentali. Partendo dalla storia già nota, almeno per chi ha letto il romanzo Fino all'osso di Camille DeAngelis, Guadagnino ci racconta quella che solo apparentemente è una “semplice” storia d’amore ma che invece cela un percorso di crescita e accettazione, di sopravvivenza in un mondo che non è per tutti o almeno non è accessibile a tutti.
Il modo in cui il regista mette in luce, pur non facendolo mai direttamente ma sempre attraverso metafore e simbolismi, la diversità sempre vista come ostacolo per l’inclusività e l’accettazione ha un fascino personale che non deriva solo dal modo in cui viene raccontato ma principalmente proprio da quelle cose che non vengono dette.
Anche la scelta di mostrare poco uno degli elementi centrali della pellicola, il cannibalismo, è la dimostrazione che Guadagnino decide di utilizzare un elemento estremo per enfatizzare ciò che vuole raccontare; quando entra in scena lui (il cannibalismo) il regista imposta le scene migliori, attraverso inquadrature artistiche e l’uso di palette di colori avvolgenti, il sangue che finisce per essere un protagonista mai assoluto, mostrato sempre con una naturalezza tale da normalizzarlo anche alla vista più delicata.
Ma non sono solo quelle scene che rubano totalmente lo schermo e l’attenzione, a fare da ottimo collante ci sono gli interpreti, uno su tutti quel Mark Rylance che dà spirito e vita a Sully, cannibale adulto e solitario che prende sotto la sua ala Maren, legandosi a lei in modo ossessivo, facendo poi di quell’ossessione la benzina per la sopravvivenza, stimolo molto più appetibile di mangiare umani fino all’osso; questa esigenza mai necessaria per la conservazione, i cannibali per sopravvivere si possono nutrire anche del “normale” cibo, contribuisce da una parte a rendere normale ciò che vediamo ma dall’altra rischia di creare una crepa tra i protagonisti e lo spettatore incapace di comprendere le ragioni dietro il macabro gesto che Guadagnino, almeno in parte, giustifica elargendolo solo a coloro che in un certo senso lo meritano.
L’incanto di cui sopra invece si torna a percepire nei momenti in cui i movimenti di macchina si spostano tra il caotico interno, dove accadono cose indicibili, violente e voraci, e il placido esterno disturbato solo dal rumore del vento. È proprio in una di queste scene quasi finali che concedo alla pellicola di Guadagnino, mai veramente convincente, il beneficio del piacere, collocandola ben oltre la sufficienza: per il modo unico in cui è capace di fare cinema.
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