Regia di Dario Argento vedi scheda film
Il cielo, il cielo di Roma, ci fa percepire subito un senso di alienazione intima: gli intrecci degli alberi non ci fanno scorgere il sole che presto verrà oscurato del tutto dalla luna per effetto di una eclissi totale. La protagonista di questo nuovo film di Dario Argento è Diana (Ilenia Pastorelli), che guida l’automobile tra le strade deserte, alla ricerca di un luogo per poter assistere all’eclisse. Gli occhiali neri che Diana indossa devono proteggerla momentaneamente, non sa ancora che faranno presto parte del suo volto. Un volto sul quale il regista indugia da subito con primi piani, per sollecitare la nostra attenzione su ogni dettaglio. Dopo l’eclissi, il sole non torna ad illuminare le scene, ma si arriva subito alla notte del primo omicidio. Una prostituta esce da un albergo dopo aver passato qualche ora con un cliente, appena fuori viene aggredita alle spalle da un individuo incappucciato che le taglia la gola e scappa su un furgone. La donna è la terza vittima del maniaco delle escort, che presto prenderà di mira anche Diana, che per sfuggirgli, dopo un inseguimento in macchina, fa un incidente dove viene coinvolta una famiglia cinese: il padre muore sul colpo, la madre sopravvive ma in coma, l’unico a non essere ferito è il piccolo Chin, un ragazzino di circa 10 anni. Diana non muore, ma per il violento impatto perde la vista. Per lei comincia un’eclissi infinita. Oltre a dover imparare a convivere con il nuovo handicap, sa che è sotto la mira del maniaco che continua a seguirla, inoltre convive con il senso di colpa per essere stata lei la causa della morte dei genitori del piccolo Chin. Il bambino però comprende che Diana è speciale e così scappa dall’istituto dove attende di essere dato in affido e cerca rifugio proprio da lei. Nasce così un rapporto simbiotico tra i due, che si proteggono a vicenda. Intanto, grazie all’aiuto di Rita (Asia Argento), un'educatrice per non vedenti, Diana diventa sempre più indipendente e autonoma, ad aiutarla nel suo percorso entra a far parte anche un pastore tedesco, Nerea, addestrato appositamente per i non vedenti, una cagna dall’indole protettiva che diventa l’angelo custode di Diana.
Purtroppo il maniaco è sempre più vicino e tallona la ragazza e il bambino fino a farli fuggire in un bosco alle porte della città, qui (come in ogni favola nera che si rispetti) ci sarà il finale che non darà tutte le risposte logiche che uno si pone durante la visione, ma che trova la logica nel racconto di fantasia che la narrazione classica di genere suggerisce.
Occhiali Neri non è solo il ritorno nelle sale cinematografiche di Dario Argento alla regia, ma è piuttosto il riprendere un discorso che il regista romano aveva sospeso anni indietro. Molti, moltissimi, sono infatti i rimandi ai suoi antichi lavori (e parlo dei primi film): come nel “Gatto a nove code”, i protagonisti sono ancora un non vedente e un bambino; gli animali hanno di nuovo un ruolo fondamentale per la narrazione, ritroviamo i luoghi del bosco come in Phenomena o Suspiria, e la presenza del personaggio guida (qui interpretato da una brava Asia Argento) che nei film più esoterici di Argento non manca mai. Dario Argento è un maestro a descrivere per immagini il suo mondo immaginario, dettato dalla sua cultura influenzata dalla letteratura nera e dai suoi incubi più intimi. Il grosso limite di questo film (e di molti altri purtroppo) sta nei dialoghi e in alcuni punti della sceneggiatura. Chi ama Argento come me (lo adoro) sa che per vedere i suoi film, anche i più belli, deve fare dei compromessi con le sue storie. Non bisogna pretendere che tutto torni, che ci siano situazioni logiche a spiegare le motivazioni che spingono l’omicida a fare quello che fa. Esattamente come da piccoli non ci si chiedeva perché un lupo parlasse e riuscisse ad infilarsi nel letto della nonna di Cappuccetto Rosso, così non ci si deve fare troppe domande sul come e il perché delle azioni dei protagonisti del film.
Il tallone d’achille del film sono sicuramente i dialoghi e la recitazione approssimativa degli attori (che però risulta simpatica piuttosto che fastidiosa), mentre gli effetti speciali del grande Sergio Stivaletti (che per le decapitazioni rimane il numero uno) sono da manuale, e questo per gli amanti dello splatter (come la sottoscritta) rimane una valvola di sfogo e di grande divertimento. Una nota di merito, una medaglia d’onore, va all'ottima colonna sonora di Arnaud Rebotini, che con uno stile appropriato sottolinea ogni scena di pathos, e accompagna quelle di minor importanza. Devo dire che ho trovato molto buona anche l’interpretazione di Asia Argento, di cui non sono una grande estimatrice, forse relegata in un ruolo marginale ma non di poca importanza, riesce a dare il meglio di sé. A lei il merito di aver riportato il padre sul set, ritrovando in fondo ad un cassetto questa sceneggiatura scritta anni indietro insieme a Franco Ferrini, lo stesso che scrisse con Argento “Phenomena”, e lo stile si nota in molti punti, soprattutto nella seconda parte del film, in cui il thriller lascia lo spazio più al racconto nero.
L’ultimo film di Dario Argento che andai a vedere al cinema era “Il fantasma dell’opera” del 1998, dopo di che ho sempre avuto paura ad affrontarlo in una sala cinematografica, sperando che le delusioni fossero meno cocenti davanti allo schermo televisivo. Ricordo che per “Il Cartaio” lo odiai quasi, e mi sono rifiutata di vedere “Giallo” e “Dracula 3D”, proprio per il grande rispetto e amore che riservo per lui. Oggi ero pronta per vederlo al cinema, a 81 anni ha confezionato un film più che dignitoso, in cui è riuscito a concludere un discorso aperto con il suo pubblico più di 50 anni fa. Parlo di un pubblico affezionato ovviamento, che è pronto a riconoscerlo nelle sue scene più riuscite e a perdonarlo in quelle meno buone.
Per concludere, vorrei che ci si soffermasse sui primi 15 minuti del film, che oserei dire ottimi: girati in piena pandemia, riescono a trasmettere quel senso di alienazione tipica delle atmosfere argentiane (penso a Tenebre), in cui, nonostante i luoghi siano ben riconoscibili, grazie all’occhio del maestro, riescono a trovare una loro dimensione onirica e irreale, facendo calare lo spettatore nella giusta predisposizione.
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